Vi prego ditemi che siamo arrivati

Ci sono dei turni che mi fanno esclamare “Ma chi me l’ha fatto fare!”, vuoi per la stanchezza fisica e mentale al mattino quando lascio la sede, per gli odori poco gradevoli di alcuni servizi, per le menate più o meno quotidiane che arrivano dall’alto o dal basso… Ieri sera è stato uno di quelli, ma per un motivo diverso.

Turno iniziato alle 20, mi trovo con un collega in cucina a mangiare una pizza: l’equipaggio del 118 è uscito, quello dei viaggi B anche, rimaniamo solo noi due in attesa di ri-formare la squadra 118. Arriva una telefonata: avete un equipaggio per una rianimazione? Ci guardiamo, alle rianimazioni non sappiamo dire di no perchè ci rendiamo conto di quanto siano gravi e delicate, lasciamo a malincuore metà pizza nel cartone e saliamo in ambulanza.

Al nostro arrivo in pronto soccorso il paziente appare critico: cardiopatico, satura appena 70 sotto ossigeno, è in evidente affanno. Ascoltando i discorsi tra i medici capiamo che ha una grave polmonite che ha debilitato un fisico già destabilizzato.

Il problema è che non si trova un posto in rianimazione negli ospedali vicino: dopo un’ora di tentativi in 6 ospedali (e nel frattempo esami aggiuntivi al paziente), finalmente si trova un posto a 40km di distanza. Per fortuna è una città conosciuta a noi, sappiamo di poterci arrivare senza grossi problemi.

Il paziente viene sedato e intubato, prepariamo l’ambulanza: bombole, respiratore automatico, dosatore di anestetico, flebo, ecc. Pronti a partire: io mi posiziono sul divanetto laterale, l’anestesista sulla sedia laterale, la dottoressa sulla sedia in direzione contraria alla marcia. Appena l’ambulanza si muove, la frase che non vorresti mai sentire da parte della dottoressa “Soffro il mal di macchina”. La guardo in faccia, “Anche io purtroppo” le rispondo. Il viaggio non può che promettere male.

Alla prima rotonda in sirena la dottoressa sbianca, le suggerisco di fare cambio con me di posto in modo da essere rivolta nella direzione di marcia. Acconsente. Dopo 200m passiamo sopra un cavalcavia, il vuoto d’aria la prova ulteriormente.

L’anestesista decide nel limite delle possibilità di non coinvolgerla nelle operazioni di routine del viaggio, e mi chiede di aiutarla: passami quello, tieni la testa, passami l’aspiratore. Pur soffrendo anche io molto la macchina, chiacchiero per distrarmi, svolgo qualche compito, tutto sembra andare bene.

Dopo 20 minuti in sirena si arriva alla città, dopo poco però la dottoressa non ce la fa più e chiede “una traversa”. Mi affaccio nello spazio del guidatore e gli urlo “Ferma l’ambulanza che la dottoressa deve vomitare”. Lui si arresta imemdiatamente dopo una curva, apro il portellone laterale, corro ad aprire quello posteriore per far scendere la dottoressa, mi porto dietro alla portiera… E vomito io. Addio pizza salame piccante e gorgonzola. Purtroppo l’essermi mossa molto nelle ultime curve mi ha fregato. Che vergogna, chissà cosa avranno pensato gli automobilisti che ci sono passati accanto.

Mi ricompongo, percorriamo gli ultimi metri per arrivare all’ospedale. Scarichiamo il paziente e lo portiamo in rianimazione.

La dottoressa viene rimessa più o meno in sesto dai suoi colleghi. Il viaggio di ritorno inizia con me seduta dietro e la dottoressa davanti, ma dopo pochi chilometri dobbiamo darci il cambio. Sono proprio fuori fase, e la prospettiva di un turno di notte così mi spaventa. Provo a cercare via cellulare un cambio, ma ormai sono le 23.30 ed è impossibile.

Arrivati in pronto soccorso, mentre lasciamo giù medico e anestesista, vado dagli infermieri a mendicare un Plasil. “Bevi o chiappa?”, decido per il bere, uno dei sapori più amari mai provati.

Tornando in sede ci fermiamo a casa del collega, elemosino un limone da sua mamma, in sede a mezzanotte mi faccio due bei bicchieroni di acqua e limone. Per fortuna la nausea passa, riesco a dormire e il telefono non suona.

A ripensarci… che figura, per fortuna che il paziente dormiva e non ha assistito allo spettacolo!

 

Le nostre paure

Una delle domande che mi fanno più spesso da quando viaggio in ambulanza è “Ma non ti fa schifo vedere…”, seguito da un ampio corollario di scene più o meno splatter.

Diciamocelo: essere soccorritori non è per tutti, un pò di pelo sullo stomaco ci vuole, ma il livello di probabilità di vedere qualche scena forte penso sia più o meno simile a quello che abbiamo tutti noi nella vita di tutti i giorni. Mi spiego: una delle cose che ci capita più di frequente è il paziente che vomita. Quante mamme nell’infanzia dei pargoli hanno sorretto teste, pulito vomitate, si sono trovate chiazze sui vestiti? Certo, il vomito del proprio pupo non è paragonabile con quello di un bevitore accanito di Tavernello, su questo non ci piove.

Detto questo, il livello di ciò che si reputa disgustoso è molto soggettivo: c’è chi non si scompone di fronte alle fratture ma non sopporta l’odore del vomito, o chi non sopporta la vista del sangue.

Di mio posso dire che mi da più fastidio l’odore di urina che quello del vomito, e mi auguro di non andare mai su fratture scomposte o esposte, e su fratture ai denti… La sola idea mi mette veramente i brividi!

Nella mia carriera di soccorritore sono stata finora fortunata, scene apocalittiche e spargimenti di sangue non ne ho visti: qualche incidente stradale ma per fortuna lievi, qualche trauma con fratture ma sempre composte, sanguinamenti specie da ferite alla testa ma contenuti… Episodi di vomito neanche li conto, e ho pure vomitato io sul mezzo (ma ero attrezzata con i sacchetti!).

E i morti? Facendo un rapido calcolo ne ho visti/toccati 5 o 6, ma in quel momento non hai neanche il tempo di pensarci, non è un corpo ma è il tuo paziente che devi cercare di rianimare, è una persona che è ancora viva fino al momento in cui il medico non ti ferma, e allora il tempo rallenta, si entra in un’altra dimensione, e inizi a rendertene conto mentre l’infermiera toglie gli aghi dalle braccia, e tu stacchi i piattelli del DAE dal torace, elimini ogni segno esterno del tuo passaggio.