Bonjour finesse

Questo episodio è successo un paio di anni fa, ma mi ritorna spesso in mente.

Turno di sera, ci rechiamo in verde in un paese vicino. Entrati in casa, troviamo una giovane donna che si lamenta di gonfiore e dolore alla pancia. In effetti è molto “voluminosa”…. Ci racconta che è appena tornata a casa dall’ospedale dove ha subito un’operazione in laparoscopia, ma i dolori sono aumentati e soprattutto la pancia si è gonfiata molto.

Sono io capo-equipaggio, dopo aver raccolto i parametri e messo davanti a me la documentazione d’uscita dall’ospedale chiamo la centrale per comunicare.

Operatore 118: “Ha seguito alla lettera le indicazioni nella lettera di dimissione?”
Io: “Adesso chiedo… Signora, ha seguito le indicazioni della lettera di dimissione?
Paziente: “Sì certo”
Io: “Riferisce di sì”
Operatore 118: “Ma ha fatto aria canalizzata?”

Aria canalizzata? Ignoro cosa sia, è una delle mie prime volte come capo-equipaggio… un intervento che si esegue durante la laparoscopia o prima di essere dimessi? Nel dubbio io chiedo:

Io: “Signora, ma l’intervento era di aria canalizzata?”
Paziente: “Non lo so, io ho fatto la laparoscopia”
Io: “Centrale, non sa rispondermi”
Operatore 118: “Guarda che con aria canalizzata io volevo semplicemente sapere se ha scorreggiato!”

Certe volte il linguaggio medico è molto meno efficace del linguaggio di strada! Bastava dirlo no?

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La badante della badante

Turno di notte, il telefono ci sveglia alle 5 del mattino. Ci riferiscono di una caduta in casa, a chiamare è stata la badante.

Saliamo in ambulanza e andiamo nel paese vicino, la casa si trova in una stretta via a metà strada tra periferia e centro città. E’ una villettina a due piani, vecchiotta ma tenuta bene, probabilmente abitata da 2 famiglie. Al nostro arrivo il cancello è tenuto aperto da un blocco di legno che “oscura” la fotocellula, il portoncino è aperto, ma la porta di casa è chiusa e tutte le luci spente. Facciamo il giro della casa per vedere se qualcuno ci sta aspettando ad una porta sul retro: nessuno.

Ritorniamo al portoncino, ci sono due citofoni riportanti lo stesso cognome: quale suonare? Nel dubbio, li suoniamo entrambi.

In quel momento una voce di donna ci giunge dal retro “Sono qui, sono caduta, venite ad aiutarmi”. Ci avviciniamo, la voce sembra provenire da una finestra che si affaccia sul cortile, stiamo ipotizzando che la signora sia caduta in casa vicino alla finestra e stia invocando aiuto… Quando facendo pochi passi torniamo alla parte posteriore della casa, dove eravamo passati pochi secondi prima, e troviamo una vecchietta seduta sulle scale che portano al piano rialzato. E’ lei che sta urlando. Ma da dove è apparsa?

“Signora è lei che è caduta?”

“Io sono caduta adesso, ma vi ho chiamato per la mia badante che è caduta in casa, andate a vedere lei”.

Rimaniamo alquanto perplessi, nel frattempo ci dividiamo: io rimango con la signora sui gradini, i miei colleghi entrano in casa a controllare. Mi faccio raccontare cosa è accaduto. Durante la notte la badante (una parente alla lontana di circa 70 anni) si è alzata per andare in bagno, ha perso l’equilibrio per un abbassamento di pressione e ha fatto un movimento brusco con la schiena. Dolorante, si è rimessa a letto ma arrivate le 5 il dolore è diventato così intenso da non potersi muovere, ed ha chiamato in suo soccorso l’assistita. La nonnina ha allertato il 118, aperto il cancello e tutto il resto, ma nell’agitazione scendendo le scale dall’appartamento dove abita al secondo per tornare dalla badante al piano rialzato è inciampata nello zerbino, andando per terra.

L’ultima parte del racconto mi sconvolge “Sa, io ho 103 anni!”… Questa vecchietta, un pò sorda forse ma lucidissima, si è presa cura della sua badante, e ha voluto che la riaccompagnassimo in casa a mostrarci che abita da sola insieme alla sorella 98enne, allettata, di cui si prende cura durante il giorno. Nonostante i dolori al costato per la caduta, non c’è stato verso di convincerla a venire con noi a farsi visitare: se lei e la badante fossero venute entrambi in PS, chi avrebbe badato alla sorella? Ci facciamo promettere che, appena la badante fosse tornata dal PS, sarebbe stato il suo turno di farsi vedere dal medico.

Orgogliosa (e forse anche un pò testarda) fino in fondo, non ha voluto che l’accompagnassi per l’ultimo tratto di scale fino al suo appartamento… Però, mica male la 103enne!

Puoi solo stare a guardare

Siamo a metà di un turno festivo, suona il telefono: la centrale ci manda in una casa di riposo di un paese vicino, codice verde, anziano con dolori addominari ed anuria (non riesce a fare pipì).

Arriviamo alla casa di riposo, carichiamo lo zaino sulla barella e saliamo al piano. Troviamo questo vecchietto, sdraiato su un fianco, che si aggrappa disperato alle spondine del letto, urla e si tocca l’addome. C i riferiscono che, sebbene cateterizzato, non urina dal giorno precedente. Lui ha una cartella clinica a dir poco infinita, nonchè demenza senile e quindi non c’è collaborazione da parte sua, non riusciamo a farci spiegare cosa sente.

Carichiamo in ambulanza e ci dirigiamo verso l’ospedale, dove o riposizioneranno il catetere (nel caso sia una cosa lieve), o indagheranno maggiormente con tac e con ricovero in caso più grave. Il viaggio, sebbene duri pochi chilometri, è penoso: nonostante i nostri tentativi di calmarlo e di parlargli, non riusciamo ad abbattere la barriera che la malattia ha creato tra noi e lui. Le sue mani stringono la spondina della barella, le nocche diventano bianche per lo sforzo, le braccia non trovano riposo e sono sempre in movimento… Si aggrappa alla bombola dell’ossigeno (per fortuna è ben fissata per terra, nessun rischio), poi alle coperte, poi alla cinghia che lo tiene alla barella. Mettiamo in sicuro qualsiasi cavo si trovi nelle sue vicinanze, e poi non possiamo fare altro che stargli vicino, cercare di rincuorarlo ed evitare che si faccia male (magari staccandosi il catetere).

E’ un viaggio fatto di urla, riusciamo solo a capire “Aiuto” e “Mamma”: guardandolo mi sembra di rivedere mio nonno, quando era ricoverato in ospedale, sono quasi coetanei. Arriviamo in ospedale e lo lasciamo nelle mani nei medici.

Dopo un paio d’ore la situazione si sblocca, e potrà fare ritorno in casa di riposo.

Come reagisco alla paura

Ognuno di noi vive la paura (e anche il dolore) a modo proprio: c’è chi piange, chi si dispera, chi ti “ricatta” affinchè questa smetta, chi si arrabbia, chi diventa maleducato, chi sembra indifferente, chi ci ride sopra… Tutti questi comportamenti sono legittimi, non esiste un manuale che ti dice come si deve reagire, ma quando la reazione non è misurata alla situazione ecco che si innesca nello spettatore una sensazione di disagio, “Qui qualcosa non va”.

Il giorno che siamo andati sul servizio della donna in arresto cardiaco, abbiamo svolto prima altri due servizi, molto diversi tra loro.

Riceviamo la telefonata direttamente sul nostro telefono dalla moglie del malato, riferisce che il marito ha la pressione molto alta. Avvisiamo il 118 ed usciamo, codice giallo. Arriviamo alla casa, troviamo il signore sdraiato sul divano avvolto completamente nelle coperte. Ripete di avere molto freddo e la nausea, quindi iniziamo ad ipotizzare un attacco febbrile. Togliendo le coperte inizia a delinearsi un quadro diverso: l’uomo è pallido sudato freddo (tipica definizione che, in qualsiasi persona abbia fatto un corso di pronto soccorso, dovrebbe far accendere un’enorme lampadina “Cardiaco! Cardiaco!”), e la mattina è andato in montagna a raccogliere funghi nel bosco con la moglie.

La montagna di per sé non è molto alta (escludiamo ischemie), ma i parametri vitali non sono molto buoni: saturazione 88%, pulsazioni 168 al minuto, pressione 80/60. Qui qualcosa non va, potrebbe essere un’IMA (infarto miocardico acuto) pur senza i classici segnali, come dolore al petto, al braccio, difficoltà respiratorie, ecc… Facciamo immediatamente un’ECG, noi non siamo in grado di leggerlo con la nostra formazione (ci viene solo chiesto di eseguirlo e spedirlo telematicamente alla centrale, dove un cardiologo lo leggerà), ma vediamo anche noi che c’è qualcosa non va. La centrale lo conferma: iniziate a caricare, vi mando incontro l’automedica.

Il signore, che prima del nostro arrivo era agitatissimo, si calma: “sgrida” i famigliari che lo trattano come un malato, scherza con noi, ci racconta dei funghi che non ha trovato, chiede di poter indossare un cappellino perchè “non ho più i capelli di una volta”. Non è uno sprovveduto, non è un illuso e neanche un paziente psichiatrico, sa benissimo che se arrivano in casa 3 soccorritori e ti fanno 4 o 5 volte un ECG, e poi arriva un medico a controllarti… ecco, non è che stai tanto bene. Lui invece rimane lucidissimo, non chiede notizie sulla sua situazione ma ringrazia ogni qual volta gli diamo qualche informazione, cerca di aiutarci offrendosi di scendere da solo le scale.

Lo lasciamo in pronto soccorso: quando diverse ore dopo portiamo la signora dell’arresto cardiaco lo ritroviamo in osservazione, sta aspettando il secondo ciclo di esami del sangue per verificare l’infarto. Ci saluta e ci ringrazia.

Usciamo appena dal pronto soccorso quando suona il cellulare del 118, donna caduta in casa con probabile interessamento del ginocchio, verde. Arriviamo in un condominio, la donna abita in un bell’appartamento al piano terra, la troviamo sdraiata per terra nella camera da letto in uno stretto spazio tra il letto e la cassettiera. Prima ancora di arrivare sentiamo i lamenti. La donna, 20 anni in meno del precedente paziente, è letteralmente nel panico: si dispera, ci dice che la gamba è rotta, che è sfortunatissima nella vita. Cerchiamo di farla calmare e di farci raccontare cos’è successo: la signora è allettata per un piccolo intervento subito nei giorni precedentemente, si è alzata per rifare il letto ma è scivolata sul tappetino, cadendo e battendo con il ginocchio contro al bordo imbottito del letto. La visitiamo, non rileviamo alcun trauma evidente, ha solo male: molto probabilmente è stata solo una botta, al massimo una distorsione al ginocchio che però è rientrato nella sua sede.

Vista anche la posizione, blocchiamo la gamba con una steccobenda, mettiamo del ghiaccio e decidiamo di farla uscire dalla scomoda posizione con la tavola spinale. Un intervento molto semplice che però ci fa sudare sette camicie: la donna va continuamente rassicurata, non si è rotto nulla, andiamo in PS solo per una lastra e prima di sera è sicuramente a casa… No, la steccobenda non fa male, anzi starà meglio con la gamba ben ferma… No, la spinale non fa male, ci aiuterà a spostarla senza muoverla… E’ così per tutto il viaggio, alterna momenti in cui “piagnucola” di quanto è stata sfortunata nella vita, chiede scusa al marito, ad altri in cui si arrabbia con se stessa perchè si è alzata dal letto…

Lasciamo anche lei nelle mani degli infermieri per una semplice lastra al ginocchio.

Ecco due esempio in un pomeriggio di come due situazioni mediche diametralmente opposte sono state affrontate psicologicamente dai pazienti in maniera completamente differente.