Un’altra prima volta

Nella vita di un volontario che fa servizio di emergenza sulle ambulanze, ci sono alcuni tipi di interventi che, statisticamente, prima o poi bisogna incontrare: l’incidente stradale mortale, il parto, il TSO, ecc. Alcuni giorni fa, per la mia prima (e spero ultima) volta, sono intervenuta su un suicidio.

Il turno era già stato abbastanza intenso con una caduta e una lipotimia in strada. Eravamo tranquillamente in sede quando suona l’allarme del 118. Mi avvicino al monitor per spiare l’indirizzo da sopra la spalla del centralinista, quando vedo una casellina rossa in corrispondenza della riga. “Ahia”, mi dico… Prendo in mano la stampa, e trovo conferma: codice invio rosso, con automedica, “paziente non respira”.

Ci precipitiamo giù dalle scale, saliamo in ambulanza e via. Io preparo tutto a portata di mano: sacchetto della rianimazione, busta delle piastre DAE e forbice a portata di mano, ambu e cannula, stacco il DAE dalla parete.

Arriviamo sul posto, ci dicono al terzo piano, ci distribuiamo l’attrezzatura e saliamo fino all’appartamento.

Arrivati ci dirigiamo in camera da letto, la donna di circa 80 anni è sdraiata sul letto. La mia collega si avvicina e la chiama, nel frattempo chiede al marito da quanto tempo non la vedeva. A quel punto, si accorge che la donna ha una cintura attorno al collo. Sbianca.

“Cos’è questa cintura?”, la risposta è “era attaccata con quella alla maniglia della finestra”. “Si è impiccata?”. E’ uno scenario per cui non eravamo pronti, e ci spiazza un attimo. Dopo i primi momenti di disorientamento, la procedura va avanti come se fosse un arresto “normale”: lasciamo la cintura al suo posto (c’è abbastanza gioco da non intralciare le manovre di rianimazione), mettiamo la donna per terra e iniziamo a massaggiare. Nel frattempo avvisiamo le centrale dell’evoluzione della situazione, e assieme al medico arrivano anche i carabinieri.

Non ci è stato possibile salvare la donna, a quanto sembra appena rientrati dalla passeggiata ha messo in opera il suo piano, e il marito l’ha persa di vista per più di mezz’ora.

Il fatto di sapere in anticipo che si trattasse di suicidio ci avrebbe aiutato ad affrontare la scena in un altro modo? Non penso, alla fine non c’era nulla che potevamo fare di diverso se non operare come negli altri casi. E’ stato però un po’ uno shock, diciamo che nella sfortuna di capitare su un caso simile abbiamo avuto la fortuna di non doverla vedere ancora appesa, nonostante i corsi e gli aggiornamenti (anche di carattere “forense”) non so come mi sarei umanamente sentita.

Rianimare

In questo blog ho sempre parlato di viaggio 118, ma fare il volontario in ambulanza comprende anche un’altra categoria di viaggi: sono i cosiddetti “secondari”, ovvero viaggi che non dipendono dal 118 e che (in teoria, come tra poco vedrete) non prevedono situazioni di emergenza/urgenza. Questi viaggi sono ad esempio dimissioni da ospedale a casa privata, trasferimenti tra strutture ospedaliere, trasporti (sacche di sangue, esami di laboratorio), accompagnamenti per visite, ecc… In questa categoria rientrano inoltre le “rianimazioni”, ovvero mettere a disposizione l’ambulanza e l’autista (a volte anche 1 barelliere, a seconda dell’ospedale), caricare oltre al paziente un medico rianimatore e un infermiere e accompagnare tutti presso una rianimazione, una sala tac, un reparto specializzato. Le rianimazioni possono essere richieste “all’improvviso” (un paziente si aggrava e deve essere trasferito urgentemente) oppure “prenotate” (il tal giorno un paziente deve essere operato, quindi lo si trasferisce accompagnato dal rianimatore).

Perchè questo cappello iniziale? Perchè ogni tanto capita anche a me di non effettuare un servizio come 118 ma come barelliere di viaggi secondari, e poco tempo fa mi è capitata una rianimazione diversa dal solito.

Veniamo chiamati da un reparto dell’ospedale cittadino per una rianimazione verso l’unità coronarica. Arrivati in reparto aspettiamo qualche minuto l’arrivo del rianimatore, nel frattempo il medico del reparto osserva piuttosto preoccupato le condizioni del paziente. Arrivato il rianimatore e l’infermiere, iniziamo a trasferire il paziente sulla barella. Disponiamo il telo, ci facciamo aiutare e spostiamo il paziente dal letto alla barella. Questione di pochi secondi e… il paziente va in arresto!

E’ la prima volta che mi va in arresto un paziente durante una rianimazione: ho portato pazienti messi più o meno bene, reduci da interventi o necessitanti di uno, ma mai in condizioni così critiche. Ammetto di essere rimasta un attimo spaesata, trovarmi in reparto di ospedale senza la mia dotazione standard dell’ambulanza, senza la disposizione che conosco a menadito dei dispositivi sul mezzo, senza il mio solito equipaggio… Insomma, non me lo aspettavo proprio.

Dopo un attimo di smarrimento il rianimatore assegna i ruoli: viene alzata la barella, l’infermiera prepara il materiale per l’intubazione e attacca il monitor, il mio collega sale su una sedia e inizia subito il massaggio cardiaco, io attacco l’ossigeno e mi metto a disposizione del team. Nella confusione generale l’infermiera mi chiede di aiutarla passandole delle siringhe e preparando il gel per le piastre del defibrillatore.

E’ la prima volta che vedo usare un defibrillatore “manuale”, non il semi-automatico che usiamo a bordo dell’ambulanza. Messo il gel, calibrata la potenza, il medico allontana dal paziente, posiziona le piastre dul torace, non dice “libera” ma un meno spettacolare “state tutti lontani” e scarica. Le braccia e le gambe del paziente si alzano in aria e ricadono, la schiena si inarca. Guarda il monitor, si continua a massaggiare e a somministrare farmaci. Dopo poco nuova scossa: adesso il monitor è abbastanza soddisfacente, grazie all’intubazione la saturazione è salita, il polso arriva a 130 battiti. Il paziente rimane ovviamente incosciente.

Chiudiamo le chinghie della barella, copriamo il paziente e tutti i fili che escono, controlliamo di aver preso tutta l’attrezzatura e corriamo prima verso l’ambulanza, e poi di corsa con le sirene accese verso l’ospedale finale, non più in unità coronarica ma direttamente in rianimazione.

Passiamo davanti ai parenti che attendono l’arrivo del paziente, entriamo nel reparto e aiutiamo a trasferirlo sul letto, dove viene nuovamente monitorizzato: grazie al lavoro di squadra è arrivato incosciente ma ancora vivo, con i parametri tutto sommato soddisfacenti.

Riaccompagniamo il rianimatore e l’infermiera all’ospedale di partenza, sia loro che noi dobbiamo pulire e rifornire l’attrezzatura, il turno è ancora lungo.

L’abbiamo ripresa

Ieri, dopo due anni e mezzo di urgenze, ho avuto la mia prima volta: abbiamo ripreso una persona in arresto cardiaco.

Il 118 suona alle 18.15, dopo un pomeriggio piovoso e pieno di uscite: “andate in rosso, persona incosciente”. Saliamo sull’H, durante il tragitto preparo la Robin (forbice che taglia gli abiti), il bombolino dell’ossigeno con l’ambu, una cannula di misura media, il defibrillatore. Arriviamo davanti alla casa della signora, vediamo un capannello di persone nel cortile: la signora, quasi ottantenne, è accasciata su una sedia, al centro del cortile, sotto la pioggia. E’ incosciente. I parenti attorno a noi hanno evidentemente perso la testa di fronte alla scena, si limitano a scuoterla e a gridare “è morta, è morta”.
Nonostante la nostra esperienza, questa scena ci disturba un pò, e quindi cerchiamo di scuoterli un pò dicendo “Starle attorno dicendo che è morta non ci aiuta di certo”. Confermiamo l’arresto cardiaco, non possiamo iniziare l’RCP (rianimazione cardio-polmonare, il massaggio cardiaco) nel cortile sotto la pioggia e con i parenti così ansiosi, quindi carichiamo velocemente su spinale e la portiamo in ambulanza.

Lascio l’incombenza del massaggio cardiaco ai miei colleghi più esperti, io prendo momentaneamente le funzioni di CE e prendo il cellulare per tenere i contatti con la centrale 118, sono a disposizione per recuperare dallo zaino e dall’ambulanza altri strumenti. Continuando l’RCP accendiamo il DAE, prima analisi e non scarica, continuiamo in attesa dell’automedica… Terminato il secondo ciclo di RCP la signora ricomincia a respirare autonomamente, i valori di saturazione non sono ancora buoni ma pian piano risalgono.

Partiamo in giallo verso la zona del cimitero per il rendez-vous con l’automedica, ci seguono i parenti. Il medico e l’infermiere salgono a bordo, a parte l’incoscienza trovano la paziente con respiro e polso radiale, fanno un ECG e somministrano i primi farmaci per flebo. Dall’anamnesi si ipotizza un arresto cardiaco non di origine cardiaca ma dovuto ad un trombo generato dalla gamba. La paziente arriva in ospedale sempre incosciente ma con valori accettabili di frequenza cardiaca e saturazione: la lasciamo nelle mani dei medici e degli infermieri. Le prossime ore diranno se ha subito dei danni al cervello dovuti alla mancanza di ossigeno prima del nostro arrivo.

Questo è stato il mio sesto arresto cardiaco, ma a differenza dei miei colleghi che in passato hanno già ripreso altre 2 volte una persona, per me è stata la prima volta: lasciato l’ospedale quasi non ci credevo di aver portato Maria ancora viva, di aver fatto ripartire il suo cuore. senti veramente di aver strappato una persona dalla morte, di aver dato una speranza ai famigliari, che tutte le ore di studio e di pratica sono effettivamente servite a qualche cosa.

Aver lavorato con la mia squadra abituale, dove ormai con uno sguardo ci intendiamo, che ognuno sa cosa fare, quali sono le forze e le debolezze dell’altro e come poter intervenire è stato fondamentale, abbiamo potuto lavorare in un clima abbastanza disteso per la situazione che era, e alla fine di tutto sapere di aver seguito le linee guida, di averle adattate alla situazione e di aver portato a casa il “risultato”. E’ stata veramente una bella sensazione.