Vita da soccorritore 5

Essere soccorritori significa…

… essere svegliati dal suono del telefono del 118 alle 3.30 del mattino, alzare la cornetta e sentirsi dire dalla centrale “Ciao, scusami ho sbagliato, non dovevo chiamare voi”, e non sapere se essere contenti di tornare a letto o tirare mentalmente qualche parolaccia per essere stati svegliati!

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Vi prego ditemi che siamo arrivati

Ci sono dei turni che mi fanno esclamare “Ma chi me l’ha fatto fare!”, vuoi per la stanchezza fisica e mentale al mattino quando lascio la sede, per gli odori poco gradevoli di alcuni servizi, per le menate più o meno quotidiane che arrivano dall’alto o dal basso… Ieri sera è stato uno di quelli, ma per un motivo diverso.

Turno iniziato alle 20, mi trovo con un collega in cucina a mangiare una pizza: l’equipaggio del 118 è uscito, quello dei viaggi B anche, rimaniamo solo noi due in attesa di ri-formare la squadra 118. Arriva una telefonata: avete un equipaggio per una rianimazione? Ci guardiamo, alle rianimazioni non sappiamo dire di no perchè ci rendiamo conto di quanto siano gravi e delicate, lasciamo a malincuore metà pizza nel cartone e saliamo in ambulanza.

Al nostro arrivo in pronto soccorso il paziente appare critico: cardiopatico, satura appena 70 sotto ossigeno, è in evidente affanno. Ascoltando i discorsi tra i medici capiamo che ha una grave polmonite che ha debilitato un fisico già destabilizzato.

Il problema è che non si trova un posto in rianimazione negli ospedali vicino: dopo un’ora di tentativi in 6 ospedali (e nel frattempo esami aggiuntivi al paziente), finalmente si trova un posto a 40km di distanza. Per fortuna è una città conosciuta a noi, sappiamo di poterci arrivare senza grossi problemi.

Il paziente viene sedato e intubato, prepariamo l’ambulanza: bombole, respiratore automatico, dosatore di anestetico, flebo, ecc. Pronti a partire: io mi posiziono sul divanetto laterale, l’anestesista sulla sedia laterale, la dottoressa sulla sedia in direzione contraria alla marcia. Appena l’ambulanza si muove, la frase che non vorresti mai sentire da parte della dottoressa “Soffro il mal di macchina”. La guardo in faccia, “Anche io purtroppo” le rispondo. Il viaggio non può che promettere male.

Alla prima rotonda in sirena la dottoressa sbianca, le suggerisco di fare cambio con me di posto in modo da essere rivolta nella direzione di marcia. Acconsente. Dopo 200m passiamo sopra un cavalcavia, il vuoto d’aria la prova ulteriormente.

L’anestesista decide nel limite delle possibilità di non coinvolgerla nelle operazioni di routine del viaggio, e mi chiede di aiutarla: passami quello, tieni la testa, passami l’aspiratore. Pur soffrendo anche io molto la macchina, chiacchiero per distrarmi, svolgo qualche compito, tutto sembra andare bene.

Dopo 20 minuti in sirena si arriva alla città, dopo poco però la dottoressa non ce la fa più e chiede “una traversa”. Mi affaccio nello spazio del guidatore e gli urlo “Ferma l’ambulanza che la dottoressa deve vomitare”. Lui si arresta imemdiatamente dopo una curva, apro il portellone laterale, corro ad aprire quello posteriore per far scendere la dottoressa, mi porto dietro alla portiera… E vomito io. Addio pizza salame piccante e gorgonzola. Purtroppo l’essermi mossa molto nelle ultime curve mi ha fregato. Che vergogna, chissà cosa avranno pensato gli automobilisti che ci sono passati accanto.

Mi ricompongo, percorriamo gli ultimi metri per arrivare all’ospedale. Scarichiamo il paziente e lo portiamo in rianimazione.

La dottoressa viene rimessa più o meno in sesto dai suoi colleghi. Il viaggio di ritorno inizia con me seduta dietro e la dottoressa davanti, ma dopo pochi chilometri dobbiamo darci il cambio. Sono proprio fuori fase, e la prospettiva di un turno di notte così mi spaventa. Provo a cercare via cellulare un cambio, ma ormai sono le 23.30 ed è impossibile.

Arrivati in pronto soccorso, mentre lasciamo giù medico e anestesista, vado dagli infermieri a mendicare un Plasil. “Bevi o chiappa?”, decido per il bere, uno dei sapori più amari mai provati.

Tornando in sede ci fermiamo a casa del collega, elemosino un limone da sua mamma, in sede a mezzanotte mi faccio due bei bicchieroni di acqua e limone. Per fortuna la nausea passa, riesco a dormire e il telefono non suona.

A ripensarci… che figura, per fortuna che il paziente dormiva e non ha assistito allo spettacolo!

 

Interventi 2.0

Domenica tardo pomeriggio, suona il telefono. Veniamo mandati dal 118 in una città vicina. Guardiamo la scheda: infortunio scontro di gioco. Mentalmente lo classifichiamo come “trauma su campo da calcio”. Leggiamo meglio la scheda per capire se aspettarci una frattura oppure no: nessuna indicazione in merito, unica nota “escoriazioni”. Vabbè, avrà fatto un bel capitombolo. Andiamo a vedere.

Arriviamo sul posto, si tratta di un campetto sportivo in sintetico. La partita è già finita, il campetto è vuoto, ci sono dei ragazzi nel cortile.

Scendiamo dal mezzo, ci avviciniamo ai ragazzi (tutti sui 30-40 anni, si vede che è stata una partitella tra amici e non di campionato) ma nessuno ci viene incontro. Ci guardiamo attorno per cercare la nostra “vittima”, ma non vediamo nessuno particolarmente sofferente. Ad un certo punto un ragazzo su una sedia attira la nostra intenzione: ben vestito, pantaloncini kaki, verrebbe da pensare ad uno spettatore che si è fatto male.

Siamo in 3 attorno a lui, e lo “radiografiamo” con gli occhi: dov’è che si è fatto male?

Lui: “Ecco, vedete?”

Noi: “Ad essere sinceri, no!”

Lui: “Il ginocchio, ha fatto crac”

A questo punto scoppiamo a ridere, e gli spieghiamo il fraintendimento: dalla scheda ci aspettavamo qualche ferita, delle abrasioni, insomma qualche segno… E invece il ginocchio è perfettamente normale, neanche un gonfiore, insomma non sembra neanche un calciatore infortunato!

Anche il ragazzo sta alla battuta, racconta di essere uscito con le proprie gambe dal campo, ma siccome l’anno precedente ha rotto il crociato e il dolore non era così forte tanto che è passato 1 giorno prima che si recasse in ospedale, questa volta non ha voluto ripetere l’errore e ha chiamato “quasi subito” l’ambulanza… tempo di fare la doccia e rendersi presentabile (cosa che le infermiere in pronto soccorso hanno apprezzato tantissimo!).

Ad occhio ipotizziamo una distorsione, applichiamo ghiaccio, lo mettiamo su barella ed immobilizziamo il ginocchio (un pò tardivamente forse, viste tutte le attività che nel frattempo il ragazzo ha fatto). Nel frattempo gli amici “sfottono” amichevolmente il ragazzo, rimanere seri è un pò difficile perchè le battute che fanno sono veramente spiritose: “Dai che domenica a S. Pietro fanno santo anche te”, “Diciamo a don Pierino di portarti in processione”, “Se muori la tua morosa la consolo io”, “Su quel lettino ti manca solo l’orsacchiotto e sei a posto”.

Dribblando gli amici riusciamo a caricare. Durante il viaggio il ragazzo chiacchiera e gioca con il cellulare, quando ad un certo punto dice “Guardate cosa hanno fatto!”, e ci mostra sul suo profilo Facebook una foto fatta dai ragazzi al campo di lui mentre sta per essere caricato in ambulanza.

“Ahahah che stupidi… Però in sta foto sembra che stia male dai, la gente poi si preoccupa… Ragazzi possiamo fare una foto assieme che sorrido? Così stanno tranquilli… Oh, giuro che non la posto su Facebook!”

Gemelle separate alla nascita

Turno di notte, veniamo svegliati da una chiamata all’1.30. Dobbiamo andare in un paese distante circa venti chilometri, dolori addominali. Al nostro arrivo troviamo una donna di circa 80 anni, visibilmente dolorante. Racconta di essersi messa a letto quando i dolori sono iniziati, appena al di sotto del seno. Ci racconta che soffre di diverticoli e che già in passato è successo che avesse avuto dolori simili, ma “questo mi sembra diverso, fa male anche dietro”. Riferiamo tutto alla centrale che ci chiede di fare un ECG. Per fortuna è tutto negativo, si ipotizza un problema all’apparato digerente più che a quello cardiaco, ma per sicurezza veniamo mandati non all’ospedale più vicino ma a quello con il reparto di cardiologia (che tradotto significa un’ora di sonno persa). Durante il viaggio, parlando con la paziente, emerge che sta vivendo un periodo di stress abbastanza importante, che potrebbe quindi aver provocato l’attacco di ansia che ha portato al dolore addominale. Parlando con l’equipaggio (e avendo la certezza di essere visitata di lì a poco) la paziente si rilassa e il dolore diminuisce, tanto che al nostro arrivo in ps rifiuta la barella e si dirige sulle proprie gambe nella sala visite.

Torniamo in sede, quasi non facciamo tempo a ripristinare la busta degli elettrodi che suona ancora l’allarme: questa volta nel nostro stesso paese, ma sempre donna e sempre con dolori addominali.

Arriviamo sul posto, e se non fosse che la donna ha la metà degli anni della precedente la scena è uguale: anche questa a letto piegata in due dal male, con dolori al di sotto del seno e (di riflesso) alla schiena. Memori dell’intervento precedente, le domande che facciamo sono meno numerose ma più centrate:

– “Soffre di problemi cardiaci?” “No”

– “Le è già successo?” “Sì tre volte in passato”

– “E’ un periodo di stress?” “Mmm no, non direi” (ma il marito alle sue spalle annuisce vigorosamente)

– “Malattie?” “Polipo e ernia iatale”… Bingo, verrebbe da dire.

Facciamo su indicazione della centrale un ECG di sicurezza, ma bastano pochi istanti al medico per escludere la patologia cardiaca.

Per fortuna questa volta veniamo mandati all’ospedale vicino (che, ancora per fortuna, è poco distante dalla casa della paziente). Durante il viaggio i dolori della paziente sembrano diminuire sensibilmente, per poi praticamente svanire quando in pronto soccorso trova un infermiere di sua conoscenza: sapere di essere visitata da una persona amica le toglie l’ansia, e anche gran parte del dolore.

Morale della favola: noi torniamo a letto per le ultime 2 ore di sonno disponibili, ma grazie a due casi praticamente fotocopia abbiamo imparato che anticipare la domanda “Soffre di ansia? E’ un periodo particolarmente stressato?” molto spesso aiuta (anche se purtroppo non è sempre così, non è una regola sempre valida e non è nostra intenzione “sminuire” un dolore addominale semplicemente bollandolo come stress).