Gemelle separate alla nascita

Turno di notte, veniamo svegliati da una chiamata all’1.30. Dobbiamo andare in un paese distante circa venti chilometri, dolori addominali. Al nostro arrivo troviamo una donna di circa 80 anni, visibilmente dolorante. Racconta di essersi messa a letto quando i dolori sono iniziati, appena al di sotto del seno. Ci racconta che soffre di diverticoli e che già in passato è successo che avesse avuto dolori simili, ma “questo mi sembra diverso, fa male anche dietro”. Riferiamo tutto alla centrale che ci chiede di fare un ECG. Per fortuna è tutto negativo, si ipotizza un problema all’apparato digerente più che a quello cardiaco, ma per sicurezza veniamo mandati non all’ospedale più vicino ma a quello con il reparto di cardiologia (che tradotto significa un’ora di sonno persa). Durante il viaggio, parlando con la paziente, emerge che sta vivendo un periodo di stress abbastanza importante, che potrebbe quindi aver provocato l’attacco di ansia che ha portato al dolore addominale. Parlando con l’equipaggio (e avendo la certezza di essere visitata di lì a poco) la paziente si rilassa e il dolore diminuisce, tanto che al nostro arrivo in ps rifiuta la barella e si dirige sulle proprie gambe nella sala visite.

Torniamo in sede, quasi non facciamo tempo a ripristinare la busta degli elettrodi che suona ancora l’allarme: questa volta nel nostro stesso paese, ma sempre donna e sempre con dolori addominali.

Arriviamo sul posto, e se non fosse che la donna ha la metà degli anni della precedente la scena è uguale: anche questa a letto piegata in due dal male, con dolori al di sotto del seno e (di riflesso) alla schiena. Memori dell’intervento precedente, le domande che facciamo sono meno numerose ma più centrate:

– “Soffre di problemi cardiaci?” “No”

– “Le è già successo?” “Sì tre volte in passato”

– “E’ un periodo di stress?” “Mmm no, non direi” (ma il marito alle sue spalle annuisce vigorosamente)

– “Malattie?” “Polipo e ernia iatale”… Bingo, verrebbe da dire.

Facciamo su indicazione della centrale un ECG di sicurezza, ma bastano pochi istanti al medico per escludere la patologia cardiaca.

Per fortuna questa volta veniamo mandati all’ospedale vicino (che, ancora per fortuna, è poco distante dalla casa della paziente). Durante il viaggio i dolori della paziente sembrano diminuire sensibilmente, per poi praticamente svanire quando in pronto soccorso trova un infermiere di sua conoscenza: sapere di essere visitata da una persona amica le toglie l’ansia, e anche gran parte del dolore.

Morale della favola: noi torniamo a letto per le ultime 2 ore di sonno disponibili, ma grazie a due casi praticamente fotocopia abbiamo imparato che anticipare la domanda “Soffre di ansia? E’ un periodo particolarmente stressato?” molto spesso aiuta (anche se purtroppo non è sempre così, non è una regola sempre valida e non è nostra intenzione “sminuire” un dolore addominale semplicemente bollandolo come stress).

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Notte bianca

Il post precedente, quello su come si svolge la notte, probabilmente mi ha “gufato” contro: ieri notte ho preparato il letto, l’ho scaldato per qualche minuto… e poi l’ho rivisto quando il sole stava ormai preparandosi a sorgere.

Come al solito preparo il letto verso mezzanotte: lenzuola, coperta, cuscino, bottiglia d’acqua… Sono pronta. Mi metto giù, il sonno viene quasi subito, ma altrettanto rapidamente suona il telefono del 118. Ragazza con dolore addominale in un paesino ad una decina di km di distanza. La ragazza è sofferente ma tranquilla, il viaggio fino all’ospedale sarebbe anche piacevole se non fosse per l’occhio che continua a cadere sul quadrante dell’orologio, facendo mentalmente conto di quante ore mancano al suono della sveglia. All’inizio del viaggio conto 6 ore di sonno, al termine 5.

Rientriamo in sede, il tempo di togliere scarponi e calze, di infilarmi sotto le coperte e di iniziare il pre-sonno… Ed ecco ancora il telefono che suona. Sono le 3, codice rosso in una fabbrica della città, persona incosciente. Corsa fino al garage, durante il viaggio inizio a preparare tutto l’occorrente per rianimarlo. Arriviamo al cancello, un collega ci fa grandi cenni e ci fa entrare nel capannone.

L’uomo è a terra, di lato, geme e si muove: per fortuna non è in arresto cardiaco, ma il suo aspetto non ci piace. E’ molto sudato, all’inizio pallido ma poi via via più rosso, non ricorda cosa è accaduto, non riferisce male da qualche parte in particolare, dice di non riuscire a respirare. Cerchiamo in tutti i modi di farlo reagire, di tenerlo sveglio, carichiamo subito in ambulanza per misurare i parametri ma sembra di essere sulle montagne russe: la pressione, le pulsazioni e la saturazioni vanno continuamente su e giù.

Arriva l’automedica, il medico fa eseguire diversi cicli di ECG, e poi pronuncia quelle parole che nessun equipaggio vorrebbe sentire, specialmente di notte: “andiamo in emodinamica nel grande ospedale”…. quasi 100km tra andare e tornare…

Ti rassegni, accendi la sirena e parti. Il calcolo mentale ricomincia: mancano 4 ore alla sveglia, mancano 3 ore e mezza alla sveglia, mancano 3 ore alla sveglia…

Riuscirò a posare la testa sul cuscino quando alla sveglia mancherà solamente un’ora e mezza.

Come reagisco alla paura

Ognuno di noi vive la paura (e anche il dolore) a modo proprio: c’è chi piange, chi si dispera, chi ti “ricatta” affinchè questa smetta, chi si arrabbia, chi diventa maleducato, chi sembra indifferente, chi ci ride sopra… Tutti questi comportamenti sono legittimi, non esiste un manuale che ti dice come si deve reagire, ma quando la reazione non è misurata alla situazione ecco che si innesca nello spettatore una sensazione di disagio, “Qui qualcosa non va”.

Il giorno che siamo andati sul servizio della donna in arresto cardiaco, abbiamo svolto prima altri due servizi, molto diversi tra loro.

Riceviamo la telefonata direttamente sul nostro telefono dalla moglie del malato, riferisce che il marito ha la pressione molto alta. Avvisiamo il 118 ed usciamo, codice giallo. Arriviamo alla casa, troviamo il signore sdraiato sul divano avvolto completamente nelle coperte. Ripete di avere molto freddo e la nausea, quindi iniziamo ad ipotizzare un attacco febbrile. Togliendo le coperte inizia a delinearsi un quadro diverso: l’uomo è pallido sudato freddo (tipica definizione che, in qualsiasi persona abbia fatto un corso di pronto soccorso, dovrebbe far accendere un’enorme lampadina “Cardiaco! Cardiaco!”), e la mattina è andato in montagna a raccogliere funghi nel bosco con la moglie.

La montagna di per sé non è molto alta (escludiamo ischemie), ma i parametri vitali non sono molto buoni: saturazione 88%, pulsazioni 168 al minuto, pressione 80/60. Qui qualcosa non va, potrebbe essere un’IMA (infarto miocardico acuto) pur senza i classici segnali, come dolore al petto, al braccio, difficoltà respiratorie, ecc… Facciamo immediatamente un’ECG, noi non siamo in grado di leggerlo con la nostra formazione (ci viene solo chiesto di eseguirlo e spedirlo telematicamente alla centrale, dove un cardiologo lo leggerà), ma vediamo anche noi che c’è qualcosa non va. La centrale lo conferma: iniziate a caricare, vi mando incontro l’automedica.

Il signore, che prima del nostro arrivo era agitatissimo, si calma: “sgrida” i famigliari che lo trattano come un malato, scherza con noi, ci racconta dei funghi che non ha trovato, chiede di poter indossare un cappellino perchè “non ho più i capelli di una volta”. Non è uno sprovveduto, non è un illuso e neanche un paziente psichiatrico, sa benissimo che se arrivano in casa 3 soccorritori e ti fanno 4 o 5 volte un ECG, e poi arriva un medico a controllarti… ecco, non è che stai tanto bene. Lui invece rimane lucidissimo, non chiede notizie sulla sua situazione ma ringrazia ogni qual volta gli diamo qualche informazione, cerca di aiutarci offrendosi di scendere da solo le scale.

Lo lasciamo in pronto soccorso: quando diverse ore dopo portiamo la signora dell’arresto cardiaco lo ritroviamo in osservazione, sta aspettando il secondo ciclo di esami del sangue per verificare l’infarto. Ci saluta e ci ringrazia.

Usciamo appena dal pronto soccorso quando suona il cellulare del 118, donna caduta in casa con probabile interessamento del ginocchio, verde. Arriviamo in un condominio, la donna abita in un bell’appartamento al piano terra, la troviamo sdraiata per terra nella camera da letto in uno stretto spazio tra il letto e la cassettiera. Prima ancora di arrivare sentiamo i lamenti. La donna, 20 anni in meno del precedente paziente, è letteralmente nel panico: si dispera, ci dice che la gamba è rotta, che è sfortunatissima nella vita. Cerchiamo di farla calmare e di farci raccontare cos’è successo: la signora è allettata per un piccolo intervento subito nei giorni precedentemente, si è alzata per rifare il letto ma è scivolata sul tappetino, cadendo e battendo con il ginocchio contro al bordo imbottito del letto. La visitiamo, non rileviamo alcun trauma evidente, ha solo male: molto probabilmente è stata solo una botta, al massimo una distorsione al ginocchio che però è rientrato nella sua sede.

Vista anche la posizione, blocchiamo la gamba con una steccobenda, mettiamo del ghiaccio e decidiamo di farla uscire dalla scomoda posizione con la tavola spinale. Un intervento molto semplice che però ci fa sudare sette camicie: la donna va continuamente rassicurata, non si è rotto nulla, andiamo in PS solo per una lastra e prima di sera è sicuramente a casa… No, la steccobenda non fa male, anzi starà meglio con la gamba ben ferma… No, la spinale non fa male, ci aiuterà a spostarla senza muoverla… E’ così per tutto il viaggio, alterna momenti in cui “piagnucola” di quanto è stata sfortunata nella vita, chiede scusa al marito, ad altri in cui si arrabbia con se stessa perchè si è alzata dal letto…

Lasciamo anche lei nelle mani degli infermieri per una semplice lastra al ginocchio.

Ecco due esempio in un pomeriggio di come due situazioni mediche diametralmente opposte sono state affrontate psicologicamente dai pazienti in maniera completamente differente.