Caccia al tesoro seconda parte

Nel post precedente vi ho resi partecipi di come un’indicazione stradale poco precisa possa causare problemi all’equipaggio dell’ambulanza.

Come promesso, oggi parlerò di un altro problema che aggrava la situazione viabilistica: la toponomastica dei paesi. Signori sindaci, mi sorge dal cuore un appello: italiani popolo fantasioso, perchè dobbiamo avere delle vie con nomi simili o addirittura uguali l’una con l’altra?

Dopo due anni e mezzo di soccorso ormai ho fatto l’orecchio sulle vie che hanno un possibile “omologo”, e quindi se prendo io la chiamata in centralino ho imparato a spiegare immediatamente alla centrale 118 il problema. Qui di seguito alcune conversazioni realmente accadute (per comodità ve le riporto come se si svolgessero tutte al centralino, altre volte invece il 118 viene richiamato dal cellulare quando ci troviamo sul posto e non riusciamo a trovare il paziente).

Io: “Sede”118: “Ciao, mi vai in via Violetta?”
Io: “Il nostro paese ha 6 frazioni, e ciascuna frazione ha una via Violetta… Ti ha specificato se intende la via Violetta del nostro paese o quella di una frazione, e quale?”
118: “Ti richiamo”

Io: “Sede”
118: “Ciao, mi vai in via Trottola?”
Io: “Il nostro paese ha una via Trottola e una via Della Trottola… sei sicuro che sia via Trottola?”
118: “Ti richiamo”

Io: “Sede”
118: “Ciao, mi vai in via Francese?”
Io: “Il nostro paese ha una via Francese e una via Francesi… sei sicuro che sia via Francese?”
118: “Ti richiamo”

Io: “Sede”
118: “Ciao, mi vai in via Rossi?”
Io: “Il nostro paese ha una via Antonio Rossi e una via Marco Rossi… di quale Rossi parli?”
118: “Ti richiamo”

Io: “Sede”
118: “Ciao, mi vai in via Pasqualino?”
Io: “Il nostro paese ha una via Pasqualino, una piazza Pasqualino e una strada Pasqualino, e non sono vicine tra loro… sei sicuro che sia via Pasqualino?”
118: “Ti richiamo”

Io: “Sede”
118: “Ciao, mi vai in via Dietista Cappuccio?”
Io: “Esiste una via Dietista Cappuccio e una via Dietologo Cappuccio… sei sicuro che sia via Dietista Cappuccio?”
118: “Ti richiamo”

Mi è anche capitato di andare “in soccorso” di ambulanze di altre associazioni. Di solito la scena è questa: sento una sirena avvicinarsi a casa mia, si spegne, mi affaccio e vedo arrivare due-tre soccorritori con una barella. So già di avere ragione nell’80% dei casi, ma la domanda la faccio sempre:

Io: “Ciao posso aiutarvi?”
Loro: “Stiamo cercando via Bianchi” (e io nella mia mente “Eccoli qui”)
Io: “Via Bianchi o vicolo Bianchi?”
Sguardo smarrito dei soccorritori…
Io: “Avete il numero civico?”
Loro: “20”
Io: “Allora è sicuramente la via, qui vi trovate nel vicolo… Vi spiego come arrivarci?”

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Caccia al tesoro

Non essere chiari durante una chiamata al 118 può causare grosse perdite di tempo nell’arrivo dell’ambulanza, con a  volte esiti drammatici.

Posso capire l’agitazione dei famigliari nel vedere un loro parente di arresto cardiaco, è un caso più che comprensibile, per questo ho deciso di parlare di un’uscita molto meno impegnativa: un “bel” codice bianco per intossicazione etilica che una comunicazione inefficace di chi ha richiesto il soccorso stava portando al rientro dell’ambulanza.

La telefonata ricevuta è stata più o meno di questo tipo “lungo la via Rossi, in uscita dal paese XYZ, c’è un uomo con una bici, è ubriaco”. Il paese XYZ non è il nostro, armati di navigatore e cartina individuiamo la zona e ci rechiamo, domandandoci tra l’altro se “uomo con una bici” voglia dire uomo caduto in bicicletta o uomo che sta conducendo una bicicletta, e in questo caso ci chiediamo dove sia l’emergenza.

Arriviamo in via Rossi, non abbiamo ulteriori indicazioni: è una via che esce dal paese. Iniziamo a percorrerla piano piano, dopo poco finiscono le case e inizia la campagna. Nessuna persona per strada, accendiamo anche il faro per vedere se per caso la persona sia finita in un campo a causa dell’ubriachezza. Arriviamo in pratica al paese dopo, niente. Decidiamo di fare la strada all’inverso, e nel frattempo avvisiamo la centrale. Mentre procediamo adagio adagio (io con la testa completamente fuori dal finestrino), la centrale continua ad insistere che la persona c’è. Terminiamo il secondo giro, niente. A questo punto la centrale richiama chi ha chiamato il soccorso e ce lo passa. Si “scopre” che il punto da raggiungere non è esattamente in via Rossi, ma è una traversa non asfaltata che da via Rossi porta in campagna, e dopo circa 1km si arriva ad uno slargo vicino ad un canale dove, appoggiato ad un muro, troviamo il nostro uomo, ubriaco perso, non caduto dalla bici, e sporco fino alla testa di urina, vino ed escrementi.

Rimpiangendo quasi di averlo trovato, viste le condizioni igieniche, lo carichiamo e lo portiamo in PS a smaltire la sbornia.

Mi riprometto nei prossimi post di raccontare altri episodi simili dedicati ad indicazioni non molto precise, e un post a parte meriteranno quei comuni con una toponomastica poco fantasiosa.

Le nostre paure

Una delle domande che mi fanno più spesso da quando viaggio in ambulanza è “Ma non ti fa schifo vedere…”, seguito da un ampio corollario di scene più o meno splatter.

Diciamocelo: essere soccorritori non è per tutti, un pò di pelo sullo stomaco ci vuole, ma il livello di probabilità di vedere qualche scena forte penso sia più o meno simile a quello che abbiamo tutti noi nella vita di tutti i giorni. Mi spiego: una delle cose che ci capita più di frequente è il paziente che vomita. Quante mamme nell’infanzia dei pargoli hanno sorretto teste, pulito vomitate, si sono trovate chiazze sui vestiti? Certo, il vomito del proprio pupo non è paragonabile con quello di un bevitore accanito di Tavernello, su questo non ci piove.

Detto questo, il livello di ciò che si reputa disgustoso è molto soggettivo: c’è chi non si scompone di fronte alle fratture ma non sopporta l’odore del vomito, o chi non sopporta la vista del sangue.

Di mio posso dire che mi da più fastidio l’odore di urina che quello del vomito, e mi auguro di non andare mai su fratture scomposte o esposte, e su fratture ai denti… La sola idea mi mette veramente i brividi!

Nella mia carriera di soccorritore sono stata finora fortunata, scene apocalittiche e spargimenti di sangue non ne ho visti: qualche incidente stradale ma per fortuna lievi, qualche trauma con fratture ma sempre composte, sanguinamenti specie da ferite alla testa ma contenuti… Episodi di vomito neanche li conto, e ho pure vomitato io sul mezzo (ma ero attrezzata con i sacchetti!).

E i morti? Facendo un rapido calcolo ne ho visti/toccati 5 o 6, ma in quel momento non hai neanche il tempo di pensarci, non è un corpo ma è il tuo paziente che devi cercare di rianimare, è una persona che è ancora viva fino al momento in cui il medico non ti ferma, e allora il tempo rallenta, si entra in un’altra dimensione, e inizi a rendertene conto mentre l’infermiera toglie gli aghi dalle braccia, e tu stacchi i piattelli del DAE dal torace, elimini ogni segno esterno del tuo passaggio.

Controlliamo

Essere in turno è come stare su un ottovolante, ci sono giornate in cui si viaggia a tutta velocità, e altre in cui il tempo sembra non passare mai.

Oggi era una di quelle giornate: fuori pioveva, la sede era avvolta in una nebbiolina già novembrina, e le sei ore di turno sembravano non passare mai.

Cosa fa un volontario quando non è sull’ambulanza? Bè, ognuno vive il turno a modo suo.

Unico capo saldo: il controllo dei mezzi. E’ indispensabile iniziare il turno controllando attentamente lo stato del veicolo e della dotazione sanitaria a bordo. Abbiamo una check list da seguire: il livello del carburante, della batteria del cellulare del 118, delle batterie del DAE, dell’apparecchio per ECG, dell’aspiratore e del multiparametrico. Controlliamo poi il livello dell’ossigeno e la presenza di tutti gli strumenti di lavoro.

Spesso capita che qualche collega prima di noi non abbia controllato bene, oppure che abbiano usato dei presidi senza ripristinarli: succede quindi di cambiare una bombola, di pulire delle cinghie sporche, di andare in magazzino a prendere guanti o mascherine… A lungo andare un volontario può annoiarsi di effettuare questi controlli, diventano talmente di routine che si rischia di farli senza prestare adeguata attenzione.

Purtroppo proprio a causa di una disattenzione quasi un anno fa abbiamo rischiato di dover tornare in sede senza poter effettuare un servizio: io e un mio collega, in un rarissimo caso in cui ero assegnata ad un viaggio secondario, siamo usciti subito ad inizio turno, senza aver avuto modo di controllare il mezzo, fidandoci dei colleghi del turno precedente.

Era una semplice dimissione. Arrivati in ospedale, solleviamo il materassino della barella per prendere il telo “a 6 maniglie”, un telo particolare che facilita il trasporto del paziente allettato… Ma il telo non c’è. Vuoto. Sparito. Ci guardiamo in faccia e vediamo il panico. Fortuna vuole che vicino al pronto soccorso ci sia la sede di un’associazione di soccorso, e vergognandoci non poco chiediamo in prestito un telo a loro.

La fortuna ha voluto che fosse un problema da poco, risolvibile in pochi minuti… Ma se fosse successo con una batteria mal funzionante? O un presidio mancante?

A volte si dice “meglio non pensarci”, ma in questo caso è senz’altro meglio dire “pensiamoci prima che sia troppo tardi”.

Scuse

Il post che avevo pubblicato poche ore fa ha suscitato qualche polemica che non era mia intenzione sollevare.

Prossimamente limiterò i miei post al semplice diario degli interventi.

Mi scuso se qualcuno è rimasto offeso dalle mie osservazioni, che rimangono tuttavia personali e legate alla mia esperienza.

Notte bianca

Il post precedente, quello su come si svolge la notte, probabilmente mi ha “gufato” contro: ieri notte ho preparato il letto, l’ho scaldato per qualche minuto… e poi l’ho rivisto quando il sole stava ormai preparandosi a sorgere.

Come al solito preparo il letto verso mezzanotte: lenzuola, coperta, cuscino, bottiglia d’acqua… Sono pronta. Mi metto giù, il sonno viene quasi subito, ma altrettanto rapidamente suona il telefono del 118. Ragazza con dolore addominale in un paesino ad una decina di km di distanza. La ragazza è sofferente ma tranquilla, il viaggio fino all’ospedale sarebbe anche piacevole se non fosse per l’occhio che continua a cadere sul quadrante dell’orologio, facendo mentalmente conto di quante ore mancano al suono della sveglia. All’inizio del viaggio conto 6 ore di sonno, al termine 5.

Rientriamo in sede, il tempo di togliere scarponi e calze, di infilarmi sotto le coperte e di iniziare il pre-sonno… Ed ecco ancora il telefono che suona. Sono le 3, codice rosso in una fabbrica della città, persona incosciente. Corsa fino al garage, durante il viaggio inizio a preparare tutto l’occorrente per rianimarlo. Arriviamo al cancello, un collega ci fa grandi cenni e ci fa entrare nel capannone.

L’uomo è a terra, di lato, geme e si muove: per fortuna non è in arresto cardiaco, ma il suo aspetto non ci piace. E’ molto sudato, all’inizio pallido ma poi via via più rosso, non ricorda cosa è accaduto, non riferisce male da qualche parte in particolare, dice di non riuscire a respirare. Cerchiamo in tutti i modi di farlo reagire, di tenerlo sveglio, carichiamo subito in ambulanza per misurare i parametri ma sembra di essere sulle montagne russe: la pressione, le pulsazioni e la saturazioni vanno continuamente su e giù.

Arriva l’automedica, il medico fa eseguire diversi cicli di ECG, e poi pronuncia quelle parole che nessun equipaggio vorrebbe sentire, specialmente di notte: “andiamo in emodinamica nel grande ospedale”…. quasi 100km tra andare e tornare…

Ti rassegni, accendi la sirena e parti. Il calcolo mentale ricomincia: mancano 4 ore alla sveglia, mancano 3 ore e mezza alla sveglia, mancano 3 ore alla sveglia…

Riuscirò a posare la testa sul cuscino quando alla sveglia mancherà solamente un’ora e mezza.

Come reagisco alla paura

Ognuno di noi vive la paura (e anche il dolore) a modo proprio: c’è chi piange, chi si dispera, chi ti “ricatta” affinchè questa smetta, chi si arrabbia, chi diventa maleducato, chi sembra indifferente, chi ci ride sopra… Tutti questi comportamenti sono legittimi, non esiste un manuale che ti dice come si deve reagire, ma quando la reazione non è misurata alla situazione ecco che si innesca nello spettatore una sensazione di disagio, “Qui qualcosa non va”.

Il giorno che siamo andati sul servizio della donna in arresto cardiaco, abbiamo svolto prima altri due servizi, molto diversi tra loro.

Riceviamo la telefonata direttamente sul nostro telefono dalla moglie del malato, riferisce che il marito ha la pressione molto alta. Avvisiamo il 118 ed usciamo, codice giallo. Arriviamo alla casa, troviamo il signore sdraiato sul divano avvolto completamente nelle coperte. Ripete di avere molto freddo e la nausea, quindi iniziamo ad ipotizzare un attacco febbrile. Togliendo le coperte inizia a delinearsi un quadro diverso: l’uomo è pallido sudato freddo (tipica definizione che, in qualsiasi persona abbia fatto un corso di pronto soccorso, dovrebbe far accendere un’enorme lampadina “Cardiaco! Cardiaco!”), e la mattina è andato in montagna a raccogliere funghi nel bosco con la moglie.

La montagna di per sé non è molto alta (escludiamo ischemie), ma i parametri vitali non sono molto buoni: saturazione 88%, pulsazioni 168 al minuto, pressione 80/60. Qui qualcosa non va, potrebbe essere un’IMA (infarto miocardico acuto) pur senza i classici segnali, come dolore al petto, al braccio, difficoltà respiratorie, ecc… Facciamo immediatamente un’ECG, noi non siamo in grado di leggerlo con la nostra formazione (ci viene solo chiesto di eseguirlo e spedirlo telematicamente alla centrale, dove un cardiologo lo leggerà), ma vediamo anche noi che c’è qualcosa non va. La centrale lo conferma: iniziate a caricare, vi mando incontro l’automedica.

Il signore, che prima del nostro arrivo era agitatissimo, si calma: “sgrida” i famigliari che lo trattano come un malato, scherza con noi, ci racconta dei funghi che non ha trovato, chiede di poter indossare un cappellino perchè “non ho più i capelli di una volta”. Non è uno sprovveduto, non è un illuso e neanche un paziente psichiatrico, sa benissimo che se arrivano in casa 3 soccorritori e ti fanno 4 o 5 volte un ECG, e poi arriva un medico a controllarti… ecco, non è che stai tanto bene. Lui invece rimane lucidissimo, non chiede notizie sulla sua situazione ma ringrazia ogni qual volta gli diamo qualche informazione, cerca di aiutarci offrendosi di scendere da solo le scale.

Lo lasciamo in pronto soccorso: quando diverse ore dopo portiamo la signora dell’arresto cardiaco lo ritroviamo in osservazione, sta aspettando il secondo ciclo di esami del sangue per verificare l’infarto. Ci saluta e ci ringrazia.

Usciamo appena dal pronto soccorso quando suona il cellulare del 118, donna caduta in casa con probabile interessamento del ginocchio, verde. Arriviamo in un condominio, la donna abita in un bell’appartamento al piano terra, la troviamo sdraiata per terra nella camera da letto in uno stretto spazio tra il letto e la cassettiera. Prima ancora di arrivare sentiamo i lamenti. La donna, 20 anni in meno del precedente paziente, è letteralmente nel panico: si dispera, ci dice che la gamba è rotta, che è sfortunatissima nella vita. Cerchiamo di farla calmare e di farci raccontare cos’è successo: la signora è allettata per un piccolo intervento subito nei giorni precedentemente, si è alzata per rifare il letto ma è scivolata sul tappetino, cadendo e battendo con il ginocchio contro al bordo imbottito del letto. La visitiamo, non rileviamo alcun trauma evidente, ha solo male: molto probabilmente è stata solo una botta, al massimo una distorsione al ginocchio che però è rientrato nella sua sede.

Vista anche la posizione, blocchiamo la gamba con una steccobenda, mettiamo del ghiaccio e decidiamo di farla uscire dalla scomoda posizione con la tavola spinale. Un intervento molto semplice che però ci fa sudare sette camicie: la donna va continuamente rassicurata, non si è rotto nulla, andiamo in PS solo per una lastra e prima di sera è sicuramente a casa… No, la steccobenda non fa male, anzi starà meglio con la gamba ben ferma… No, la spinale non fa male, ci aiuterà a spostarla senza muoverla… E’ così per tutto il viaggio, alterna momenti in cui “piagnucola” di quanto è stata sfortunata nella vita, chiede scusa al marito, ad altri in cui si arrabbia con se stessa perchè si è alzata dal letto…

Lasciamo anche lei nelle mani degli infermieri per una semplice lastra al ginocchio.

Ecco due esempio in un pomeriggio di come due situazioni mediche diametralmente opposte sono state affrontate psicologicamente dai pazienti in maniera completamente differente.

Non so dove dormire

Ieri notte in turno, sera+notte, inizio alle 20 e smonto alle 6.30.

In alcuni comitati i volontari che svolgono servizi notturni stanno svegli tutta la notte, in altri c’è poco movimento quindi possono permettersi di dormire. Il nostro comitato ricade nel secondo caso: alcune volte stiamo in giro tutta la notte e il letto neanche lo vediamo, ma spesso riusciamo a dormire qualche ora.

Sono andata a letto a mezzanotte, appena la sede si è svuotata dai volontari di passaggio, ma all’1 il suono del telefono del 118 mi sveglia. Bisogna andare in stazione, c’è un paziente psichiatrico, la scheda lo contrassegna come “noto” ma il nome non ci dice niente. La scheda indica anche “allertato 112”: iniziamo a pensare a una persona in stato di agitazione, magari ubriaca e violenta.

Arriviamo sul posto, prestiamo molta attenzione, ma vediamo solamente un uomo sul marciapiede che ferma l’ambulanza con un gesto: si presenta e ci dice che abita in un paese lì vicino, ha perso l’ultimo treno della notte e non ha più i genitori.

Capiamo subito che il nostro intervento, in ambito sanitario, non è richiesto: tranne il fiato alcolico questa persona ha bisogno solamente un posto dove passare la notte (la sala di attesa della stazione di notte è chiusa) e di parlare un pò.

La centrale conferma: è una persona nota, a quanto sembra succede spesso che perda il treno, ci consigliano di portarlo in pronto soccorso per fargli passare la notte.

Durante il viaggio emergono tutte le sue difficoltà: ha 50 anni, ha perso i genitori 4 anni prima, ci chiede se in ospedale ci sono delle donne anziane da conoscere “e poi chissà…”. Ci stupisce quando ci dice che ha fatto per 20 anni il volontario in una croce privata della sua città, e in pronto soccorso l’infermiere di turno ce lo conferma. Sono quelle situazioni in cui ci si chiede come è possibile ridursi così, e allo stesso tempo chi potrebbe fare cosa per aiutarlo, per non far ulteriormente peggiorare la sua situazione.

Non è il primo caso di “taxi” che facciamo, purtroppo il bacino di persone con disagio dovuto ad alcolismo, tossicodipendenza o solitudine che chiamano l’ambulanza sperando chi in un miracolo, chi semplicemente in un passaggio in pronto soccorso dove poter parlare con qualcuno o passare la nottata sono in aumento. Siamo in difficoltà anche noi che ci limitiamo ad un mero trasporto, non potendo andare ad agire oltre alla nostra sfera se non scambiare con loro qualche parola di incoraggiamento e consigliare loro a chi chiedere aiuto… ma molto spesso la risposta ricevuta è “Già fatto ma non mi aiutano”, “Mi stanno già aiutando”, “Non voglio nessun aiuto”.

Il turno si conclude con una telefonata alle 6 del mattino, sulla linea non urgente: un cittadino ci segnala che una persona è tutta la notte che parla con un’automobile sotto casa, aprendo e chiudendo gli specchietti e dicendo loro che sono dei maleducati. Ci chiede cosa fare… E cosa vuoi rispondere? Noi non lo sappiamo proprio, neanche questa volta…

L’abbiamo ripresa

Ieri, dopo due anni e mezzo di urgenze, ho avuto la mia prima volta: abbiamo ripreso una persona in arresto cardiaco.

Il 118 suona alle 18.15, dopo un pomeriggio piovoso e pieno di uscite: “andate in rosso, persona incosciente”. Saliamo sull’H, durante il tragitto preparo la Robin (forbice che taglia gli abiti), il bombolino dell’ossigeno con l’ambu, una cannula di misura media, il defibrillatore. Arriviamo davanti alla casa della signora, vediamo un capannello di persone nel cortile: la signora, quasi ottantenne, è accasciata su una sedia, al centro del cortile, sotto la pioggia. E’ incosciente. I parenti attorno a noi hanno evidentemente perso la testa di fronte alla scena, si limitano a scuoterla e a gridare “è morta, è morta”.
Nonostante la nostra esperienza, questa scena ci disturba un pò, e quindi cerchiamo di scuoterli un pò dicendo “Starle attorno dicendo che è morta non ci aiuta di certo”. Confermiamo l’arresto cardiaco, non possiamo iniziare l’RCP (rianimazione cardio-polmonare, il massaggio cardiaco) nel cortile sotto la pioggia e con i parenti così ansiosi, quindi carichiamo velocemente su spinale e la portiamo in ambulanza.

Lascio l’incombenza del massaggio cardiaco ai miei colleghi più esperti, io prendo momentaneamente le funzioni di CE e prendo il cellulare per tenere i contatti con la centrale 118, sono a disposizione per recuperare dallo zaino e dall’ambulanza altri strumenti. Continuando l’RCP accendiamo il DAE, prima analisi e non scarica, continuiamo in attesa dell’automedica… Terminato il secondo ciclo di RCP la signora ricomincia a respirare autonomamente, i valori di saturazione non sono ancora buoni ma pian piano risalgono.

Partiamo in giallo verso la zona del cimitero per il rendez-vous con l’automedica, ci seguono i parenti. Il medico e l’infermiere salgono a bordo, a parte l’incoscienza trovano la paziente con respiro e polso radiale, fanno un ECG e somministrano i primi farmaci per flebo. Dall’anamnesi si ipotizza un arresto cardiaco non di origine cardiaca ma dovuto ad un trombo generato dalla gamba. La paziente arriva in ospedale sempre incosciente ma con valori accettabili di frequenza cardiaca e saturazione: la lasciamo nelle mani dei medici e degli infermieri. Le prossime ore diranno se ha subito dei danni al cervello dovuti alla mancanza di ossigeno prima del nostro arrivo.

Questo è stato il mio sesto arresto cardiaco, ma a differenza dei miei colleghi che in passato hanno già ripreso altre 2 volte una persona, per me è stata la prima volta: lasciato l’ospedale quasi non ci credevo di aver portato Maria ancora viva, di aver fatto ripartire il suo cuore. senti veramente di aver strappato una persona dalla morte, di aver dato una speranza ai famigliari, che tutte le ore di studio e di pratica sono effettivamente servite a qualche cosa.

Aver lavorato con la mia squadra abituale, dove ormai con uno sguardo ci intendiamo, che ognuno sa cosa fare, quali sono le forze e le debolezze dell’altro e come poter intervenire è stato fondamentale, abbiamo potuto lavorare in un clima abbastanza disteso per la situazione che era, e alla fine di tutto sapere di aver seguito le linee guida, di averle adattate alla situazione e di aver portato a casa il “risultato”. E’ stata veramente una bella sensazione.

Presentazione

Sono una volontaria da 2 anni e mezzo circa e svolgo principalmente servizi di 118.

Cosa significa il titolo? Una breve panoramica per chi non è dell’ambiente: nella nostra regione (e penso quasi ovunque in Italia) un equipaggio di 118 è composto da tre elementi: il capo-equipaggio (un soccorritore che gestisce la squadra e mantiene i contatti con la centrale operativa), un autista e un barelliere. Come in tutti gli ambienti esiste uno “slang”, un linguaggio tutto nostro: ad esempio l’ambulanza del 118 è semplicemente “l’H”, abbreviazione di “H24” ovvero mezzo a disposizione del 118 24h/24. Allo stesso modo il capo-equipaggio diventa “CE”, l’autista rimane autista, e il barelliere è semplicemente “terzo di H”.

Questo è il mio ruolo principale. Siccome sono ormai passati due anni dalla certificazione, andranno ad aumentare le occasioni in cui racconterò di servizi svolti come CE… ma solitamente rimango fedele al mio ruolo iniziale.

Era da tempo che pensavo come raccontare i pensieri e le sensazioni che provo uscendo in servizio in ambulanza… Ecco come è nato questo blog. Non aspettatevi un blog in cui faccio nomi e cognomi, gossip sui servizi, ecc… Come già anticipato “Terzo di H” nasce con lo scopo di parlare con altri soccorritori (o con lettori profani della materia) dei servizi che ho svolto, di confrontarsi, di riderne, di sfogarsi, di rivederli ed analizzarli se necessario…

Al prossimo servizio (a proposito, oggi sarò terzo di H).