Bonjour finesse

Questo episodio è successo un paio di anni fa, ma mi ritorna spesso in mente.

Turno di sera, ci rechiamo in verde in un paese vicino. Entrati in casa, troviamo una giovane donna che si lamenta di gonfiore e dolore alla pancia. In effetti è molto “voluminosa”…. Ci racconta che è appena tornata a casa dall’ospedale dove ha subito un’operazione in laparoscopia, ma i dolori sono aumentati e soprattutto la pancia si è gonfiata molto.

Sono io capo-equipaggio, dopo aver raccolto i parametri e messo davanti a me la documentazione d’uscita dall’ospedale chiamo la centrale per comunicare.

Operatore 118: “Ha seguito alla lettera le indicazioni nella lettera di dimissione?”
Io: “Adesso chiedo… Signora, ha seguito le indicazioni della lettera di dimissione?
Paziente: “Sì certo”
Io: “Riferisce di sì”
Operatore 118: “Ma ha fatto aria canalizzata?”

Aria canalizzata? Ignoro cosa sia, è una delle mie prime volte come capo-equipaggio… un intervento che si esegue durante la laparoscopia o prima di essere dimessi? Nel dubbio io chiedo:

Io: “Signora, ma l’intervento era di aria canalizzata?”
Paziente: “Non lo so, io ho fatto la laparoscopia”
Io: “Centrale, non sa rispondermi”
Operatore 118: “Guarda che con aria canalizzata io volevo semplicemente sapere se ha scorreggiato!”

Certe volte il linguaggio medico è molto meno efficace del linguaggio di strada! Bastava dirlo no?

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Un’altra prima volta

Nella vita di un volontario che fa servizio di emergenza sulle ambulanze, ci sono alcuni tipi di interventi che, statisticamente, prima o poi bisogna incontrare: l’incidente stradale mortale, il parto, il TSO, ecc. Alcuni giorni fa, per la mia prima (e spero ultima) volta, sono intervenuta su un suicidio.

Il turno era già stato abbastanza intenso con una caduta e una lipotimia in strada. Eravamo tranquillamente in sede quando suona l’allarme del 118. Mi avvicino al monitor per spiare l’indirizzo da sopra la spalla del centralinista, quando vedo una casellina rossa in corrispondenza della riga. “Ahia”, mi dico… Prendo in mano la stampa, e trovo conferma: codice invio rosso, con automedica, “paziente non respira”.

Ci precipitiamo giù dalle scale, saliamo in ambulanza e via. Io preparo tutto a portata di mano: sacchetto della rianimazione, busta delle piastre DAE e forbice a portata di mano, ambu e cannula, stacco il DAE dalla parete.

Arriviamo sul posto, ci dicono al terzo piano, ci distribuiamo l’attrezzatura e saliamo fino all’appartamento.

Arrivati ci dirigiamo in camera da letto, la donna di circa 80 anni è sdraiata sul letto. La mia collega si avvicina e la chiama, nel frattempo chiede al marito da quanto tempo non la vedeva. A quel punto, si accorge che la donna ha una cintura attorno al collo. Sbianca.

“Cos’è questa cintura?”, la risposta è “era attaccata con quella alla maniglia della finestra”. “Si è impiccata?”. E’ uno scenario per cui non eravamo pronti, e ci spiazza un attimo. Dopo i primi momenti di disorientamento, la procedura va avanti come se fosse un arresto “normale”: lasciamo la cintura al suo posto (c’è abbastanza gioco da non intralciare le manovre di rianimazione), mettiamo la donna per terra e iniziamo a massaggiare. Nel frattempo avvisiamo le centrale dell’evoluzione della situazione, e assieme al medico arrivano anche i carabinieri.

Non ci è stato possibile salvare la donna, a quanto sembra appena rientrati dalla passeggiata ha messo in opera il suo piano, e il marito l’ha persa di vista per più di mezz’ora.

Il fatto di sapere in anticipo che si trattasse di suicidio ci avrebbe aiutato ad affrontare la scena in un altro modo? Non penso, alla fine non c’era nulla che potevamo fare di diverso se non operare come negli altri casi. E’ stato però un po’ uno shock, diciamo che nella sfortuna di capitare su un caso simile abbiamo avuto la fortuna di non doverla vedere ancora appesa, nonostante i corsi e gli aggiornamenti (anche di carattere “forense”) non so come mi sarei umanamente sentita.

Che fibra ragazzi

Turno pomeridiano quasi finito, veniamo chiamati per una caduta in strada. Arriviamo sul posto, è il parcheggio di un discount, c’è una donna che si sbraccia e ci indica una macchina parcheggiata.

Scendiamo ad osservare, e vediamo una signora anziana, ben vestita come se andasse a messa, seduta sul sedile del passeggero: una rapida occhiata non ci mostra ferite alle gambe o alle braccia. Che cosa è successo?

La signora è andata in visita a casa di una delle figlie, che però aveva appena passato la cera sui pavimenti, ed è caduta due volte. Anzichè chiamare aiuto in casa, è scesa le scale e ha preso la bicicletta con l’intenzione di pedalare fino al negozio dell’altra figlia. Non riuscendo a salire sulla bici, la accompagna a mano con difficoltà finchè un automobilista di passaggio la vede, la fa sedere in auto e l’accompagna fino al negozio, dove chiamano i soccorsi.

“Signora dove ha male?”, e ci indica la gamba. Ci accorgiamo che la gamba sinistra è più corta della destra, e ipotizziamo subito una frattura di femore. Tra le altre, la nostra esperienza pluriennale ci ha insegnato una triste verità: quasi sempre quando una persona si rompe il femore, i parenti la metteranno seduta o, peggio ancora, sdraiata a letto. E’ inevitabile, si pensa di farle un favore a non lasciarla a terra dopo una caduta, in realtà non si fa altro che aumentarle il dolore quando arriviamo noi che la dobbiamo caricare e spostare.

Anche la signora in auto è problematica, infatti è seduta “correttamente” sul sedile (quindi con entrambe le gambe a bordo dell’auto) ed è anche in preda allo spavento. Decidiamo di infilare un lato della spinale sotto al sedere, di farla ruotare dolcemente di 90° e di farla scivolare fuori.

Ragniamo, parametri, carichiamo e andiamo verso il pronto soccorso.

La strada è piena di buche, la signora si lamenta per il male, noi cerchiamo di sdrammatizzare la situazione “Signora, ha avuto la forza di andare da dove è caduta fino al negozio in bici, cosa vuole che siano un paio di buche”, e anche la figlia che l’accompagna sorride.

Mancata visita

Domenica pomeriggio, mancano una manciata di minuti alla fine del turno, con l’equipaggio stiamo già pensando alla pizza per cena quando suona l’allame del 118: c’è da uscire, il turno entrante non è ancora arrivato.

Mentre raggiungiamo l’ambulanza leggiamo la scheda: dolori addominali… 16 anni. “Vabbè, il solito mal di pancia per il ciclo e chiamano l’ambulanza”. Peccato che la riga dopo dica “Gravidanza-Parto, a termine”.

Durante il viaggio fino al paese ripassiamo le nozioni del corso: una gravidanza a termine capita una, due volte all’anno ad esagerare… e non nascondo che, pur avendo un certo timore, quasi tutti gli equipaggi sperano che la cicogna faccia visita alla propria ambulanza!

Arriviamo sul posto, casa al pian terreno, nel cortile ci sono altre due o tre donne incinte: la ragazza ci aspetta sdraiata su un letto, non è italiana ma parla un ottimo italiano, sembra nata qui da noi. “Sorprendentemente” per le nostre esperienze passate, la ragazza ci fornisce un quadernone con tutti gli esami del sangue, le ecografie e i controllo fatti in gravidanza. Dice che il termine è già passato da 5 giorni, oggi ha perso un pochino di sangue (ma non si sono rotte le acque) e ha contrazioni ogni 2-3 minuti.

La carichiamo velocemente insieme alla madre e andiamo verso l’ospedale; anche se il nostro turno è già terminato, non richiediamo il cambio: con delle contrazioni così ravvicinate, la cicogna potrebbe davvero arrivare!

Purtroppo già dai primi km ci rendiamo conto che la ragazza ha un pò esagerato a darci le contrazioni: durante tutto il viaggio ne ha solo 3, a distanza di 10 minuti l’una dall’altra.

Arrivati in ospedale l’accompagniamo in barella direttamente in reparto, anche questa volta la cicogna ha deciso di rimandare la visita.

Vita da soccorritore 5

Essere soccorritori significa…

… essere svegliati dal suono del telefono del 118 alle 3.30 del mattino, alzare la cornetta e sentirsi dire dalla centrale “Ciao, scusami ho sbagliato, non dovevo chiamare voi”, e non sapere se essere contenti di tornare a letto o tirare mentalmente qualche parolaccia per essere stati svegliati!

Vi prego ditemi che siamo arrivati

Ci sono dei turni che mi fanno esclamare “Ma chi me l’ha fatto fare!”, vuoi per la stanchezza fisica e mentale al mattino quando lascio la sede, per gli odori poco gradevoli di alcuni servizi, per le menate più o meno quotidiane che arrivano dall’alto o dal basso… Ieri sera è stato uno di quelli, ma per un motivo diverso.

Turno iniziato alle 20, mi trovo con un collega in cucina a mangiare una pizza: l’equipaggio del 118 è uscito, quello dei viaggi B anche, rimaniamo solo noi due in attesa di ri-formare la squadra 118. Arriva una telefonata: avete un equipaggio per una rianimazione? Ci guardiamo, alle rianimazioni non sappiamo dire di no perchè ci rendiamo conto di quanto siano gravi e delicate, lasciamo a malincuore metà pizza nel cartone e saliamo in ambulanza.

Al nostro arrivo in pronto soccorso il paziente appare critico: cardiopatico, satura appena 70 sotto ossigeno, è in evidente affanno. Ascoltando i discorsi tra i medici capiamo che ha una grave polmonite che ha debilitato un fisico già destabilizzato.

Il problema è che non si trova un posto in rianimazione negli ospedali vicino: dopo un’ora di tentativi in 6 ospedali (e nel frattempo esami aggiuntivi al paziente), finalmente si trova un posto a 40km di distanza. Per fortuna è una città conosciuta a noi, sappiamo di poterci arrivare senza grossi problemi.

Il paziente viene sedato e intubato, prepariamo l’ambulanza: bombole, respiratore automatico, dosatore di anestetico, flebo, ecc. Pronti a partire: io mi posiziono sul divanetto laterale, l’anestesista sulla sedia laterale, la dottoressa sulla sedia in direzione contraria alla marcia. Appena l’ambulanza si muove, la frase che non vorresti mai sentire da parte della dottoressa “Soffro il mal di macchina”. La guardo in faccia, “Anche io purtroppo” le rispondo. Il viaggio non può che promettere male.

Alla prima rotonda in sirena la dottoressa sbianca, le suggerisco di fare cambio con me di posto in modo da essere rivolta nella direzione di marcia. Acconsente. Dopo 200m passiamo sopra un cavalcavia, il vuoto d’aria la prova ulteriormente.

L’anestesista decide nel limite delle possibilità di non coinvolgerla nelle operazioni di routine del viaggio, e mi chiede di aiutarla: passami quello, tieni la testa, passami l’aspiratore. Pur soffrendo anche io molto la macchina, chiacchiero per distrarmi, svolgo qualche compito, tutto sembra andare bene.

Dopo 20 minuti in sirena si arriva alla città, dopo poco però la dottoressa non ce la fa più e chiede “una traversa”. Mi affaccio nello spazio del guidatore e gli urlo “Ferma l’ambulanza che la dottoressa deve vomitare”. Lui si arresta imemdiatamente dopo una curva, apro il portellone laterale, corro ad aprire quello posteriore per far scendere la dottoressa, mi porto dietro alla portiera… E vomito io. Addio pizza salame piccante e gorgonzola. Purtroppo l’essermi mossa molto nelle ultime curve mi ha fregato. Che vergogna, chissà cosa avranno pensato gli automobilisti che ci sono passati accanto.

Mi ricompongo, percorriamo gli ultimi metri per arrivare all’ospedale. Scarichiamo il paziente e lo portiamo in rianimazione.

La dottoressa viene rimessa più o meno in sesto dai suoi colleghi. Il viaggio di ritorno inizia con me seduta dietro e la dottoressa davanti, ma dopo pochi chilometri dobbiamo darci il cambio. Sono proprio fuori fase, e la prospettiva di un turno di notte così mi spaventa. Provo a cercare via cellulare un cambio, ma ormai sono le 23.30 ed è impossibile.

Arrivati in pronto soccorso, mentre lasciamo giù medico e anestesista, vado dagli infermieri a mendicare un Plasil. “Bevi o chiappa?”, decido per il bere, uno dei sapori più amari mai provati.

Tornando in sede ci fermiamo a casa del collega, elemosino un limone da sua mamma, in sede a mezzanotte mi faccio due bei bicchieroni di acqua e limone. Per fortuna la nausea passa, riesco a dormire e il telefono non suona.

A ripensarci… che figura, per fortuna che il paziente dormiva e non ha assistito allo spettacolo!

 

Interventi 2.0

Domenica tardo pomeriggio, suona il telefono. Veniamo mandati dal 118 in una città vicina. Guardiamo la scheda: infortunio scontro di gioco. Mentalmente lo classifichiamo come “trauma su campo da calcio”. Leggiamo meglio la scheda per capire se aspettarci una frattura oppure no: nessuna indicazione in merito, unica nota “escoriazioni”. Vabbè, avrà fatto un bel capitombolo. Andiamo a vedere.

Arriviamo sul posto, si tratta di un campetto sportivo in sintetico. La partita è già finita, il campetto è vuoto, ci sono dei ragazzi nel cortile.

Scendiamo dal mezzo, ci avviciniamo ai ragazzi (tutti sui 30-40 anni, si vede che è stata una partitella tra amici e non di campionato) ma nessuno ci viene incontro. Ci guardiamo attorno per cercare la nostra “vittima”, ma non vediamo nessuno particolarmente sofferente. Ad un certo punto un ragazzo su una sedia attira la nostra intenzione: ben vestito, pantaloncini kaki, verrebbe da pensare ad uno spettatore che si è fatto male.

Siamo in 3 attorno a lui, e lo “radiografiamo” con gli occhi: dov’è che si è fatto male?

Lui: “Ecco, vedete?”

Noi: “Ad essere sinceri, no!”

Lui: “Il ginocchio, ha fatto crac”

A questo punto scoppiamo a ridere, e gli spieghiamo il fraintendimento: dalla scheda ci aspettavamo qualche ferita, delle abrasioni, insomma qualche segno… E invece il ginocchio è perfettamente normale, neanche un gonfiore, insomma non sembra neanche un calciatore infortunato!

Anche il ragazzo sta alla battuta, racconta di essere uscito con le proprie gambe dal campo, ma siccome l’anno precedente ha rotto il crociato e il dolore non era così forte tanto che è passato 1 giorno prima che si recasse in ospedale, questa volta non ha voluto ripetere l’errore e ha chiamato “quasi subito” l’ambulanza… tempo di fare la doccia e rendersi presentabile (cosa che le infermiere in pronto soccorso hanno apprezzato tantissimo!).

Ad occhio ipotizziamo una distorsione, applichiamo ghiaccio, lo mettiamo su barella ed immobilizziamo il ginocchio (un pò tardivamente forse, viste tutte le attività che nel frattempo il ragazzo ha fatto). Nel frattempo gli amici “sfottono” amichevolmente il ragazzo, rimanere seri è un pò difficile perchè le battute che fanno sono veramente spiritose: “Dai che domenica a S. Pietro fanno santo anche te”, “Diciamo a don Pierino di portarti in processione”, “Se muori la tua morosa la consolo io”, “Su quel lettino ti manca solo l’orsacchiotto e sei a posto”.

Dribblando gli amici riusciamo a caricare. Durante il viaggio il ragazzo chiacchiera e gioca con il cellulare, quando ad un certo punto dice “Guardate cosa hanno fatto!”, e ci mostra sul suo profilo Facebook una foto fatta dai ragazzi al campo di lui mentre sta per essere caricato in ambulanza.

“Ahahah che stupidi… Però in sta foto sembra che stia male dai, la gente poi si preoccupa… Ragazzi possiamo fare una foto assieme che sorrido? Così stanno tranquilli… Oh, giuro che non la posto su Facebook!”

Gemelle separate alla nascita

Turno di notte, veniamo svegliati da una chiamata all’1.30. Dobbiamo andare in un paese distante circa venti chilometri, dolori addominali. Al nostro arrivo troviamo una donna di circa 80 anni, visibilmente dolorante. Racconta di essersi messa a letto quando i dolori sono iniziati, appena al di sotto del seno. Ci racconta che soffre di diverticoli e che già in passato è successo che avesse avuto dolori simili, ma “questo mi sembra diverso, fa male anche dietro”. Riferiamo tutto alla centrale che ci chiede di fare un ECG. Per fortuna è tutto negativo, si ipotizza un problema all’apparato digerente più che a quello cardiaco, ma per sicurezza veniamo mandati non all’ospedale più vicino ma a quello con il reparto di cardiologia (che tradotto significa un’ora di sonno persa). Durante il viaggio, parlando con la paziente, emerge che sta vivendo un periodo di stress abbastanza importante, che potrebbe quindi aver provocato l’attacco di ansia che ha portato al dolore addominale. Parlando con l’equipaggio (e avendo la certezza di essere visitata di lì a poco) la paziente si rilassa e il dolore diminuisce, tanto che al nostro arrivo in ps rifiuta la barella e si dirige sulle proprie gambe nella sala visite.

Torniamo in sede, quasi non facciamo tempo a ripristinare la busta degli elettrodi che suona ancora l’allarme: questa volta nel nostro stesso paese, ma sempre donna e sempre con dolori addominali.

Arriviamo sul posto, e se non fosse che la donna ha la metà degli anni della precedente la scena è uguale: anche questa a letto piegata in due dal male, con dolori al di sotto del seno e (di riflesso) alla schiena. Memori dell’intervento precedente, le domande che facciamo sono meno numerose ma più centrate:

– “Soffre di problemi cardiaci?” “No”

– “Le è già successo?” “Sì tre volte in passato”

– “E’ un periodo di stress?” “Mmm no, non direi” (ma il marito alle sue spalle annuisce vigorosamente)

– “Malattie?” “Polipo e ernia iatale”… Bingo, verrebbe da dire.

Facciamo su indicazione della centrale un ECG di sicurezza, ma bastano pochi istanti al medico per escludere la patologia cardiaca.

Per fortuna questa volta veniamo mandati all’ospedale vicino (che, ancora per fortuna, è poco distante dalla casa della paziente). Durante il viaggio i dolori della paziente sembrano diminuire sensibilmente, per poi praticamente svanire quando in pronto soccorso trova un infermiere di sua conoscenza: sapere di essere visitata da una persona amica le toglie l’ansia, e anche gran parte del dolore.

Morale della favola: noi torniamo a letto per le ultime 2 ore di sonno disponibili, ma grazie a due casi praticamente fotocopia abbiamo imparato che anticipare la domanda “Soffre di ansia? E’ un periodo particolarmente stressato?” molto spesso aiuta (anche se purtroppo non è sempre così, non è una regola sempre valida e non è nostra intenzione “sminuire” un dolore addominale semplicemente bollandolo come stress).

Nuove tecnologie al servizio della salute

In quasi tre anni di servizio ho portato in pronto soccorso tanti casi “strani”, ma strano come quello dello scorso turno mai.

Arriviamo in pronto soccorso per portare un paziente; mentre lo spostiamo dalla barella al lettino vediamo un pò di confusione attorno a noi: un paziente si è allontanato spontaneamente dal pronto soccorso, senza firmare… Svanito, scappato, tornato a casa: la guardia e alcuni infermieri lo cercano nei paraggi, dopodiché segnano l’allontanamento volontario.

Il nostro turno è finito, si ritorna verso la sede pensando già alla pizza… Ma a due chilometri dalla meta suona il telefono 118: “Ciao, tornate indietro, la persona che si è allontanata dal PS ha telefonato che vuole tornarci”.

Imprecazioni varie, giriamo indietro l’ambulanza e si va in un agglomerato di condomini popolari, poco distante dal pronto soccorso.

In un cortile troviamo ad attenderci l’ex-paziente, insieme ad alcuni parenti, ancora in pantaloni della tuta, canottiera, ciabatte e ago della flebo in vena. Sta fumando una sigaretta, ed è solo l’ultima di molte a giudicare dall’odore.

“Faccio fatica a respirare” ci dice; noi, con un pò di sarcasmo, suggeriamo di iniziare a spegnere la sigaretta, poi lo facciamo salire per prendere i parametri. Siamo pronti a ripartire per il pronto soccorso, quand’ecco la perla della giornata: “Mi prendete anche le borse?”.

Ci giriamo per vedere che borse avesse preparato: una borsa della spesa con dentro un pigiama, più una seconda borsa contente… Un televisore!

Allibiti chiediamo “Ma sono tutte e due sue?”, “Sì”… Carichiamo tutto e partiamo. Il signore era “scappato” dal pronto soccorso per tornare a casa e portarsi dietro il televisore… Immagino che fosse indispensabile per respirare meglio!

100 di questi anni

Inizio turno, siamo chiamati in casa di riposo per un’ernia inguinale che gli infermieri non riescono a far rientrare, codice verde.

Carichiamo lo zaino sulla barella, percorriamo diversi corridoi mentre l’infermiere ci informa che la paziente ha ben 102 anni, arriviamo alal camera… e la nonnina non c’è! Dov’è finita? “E’ in bagno a fare pipì e a prepararsi”.

Aspettiamo qualche minuti, convinti di vedercela arrivare in sedia a rotelle… E invece dal bagno spunta una donna piccola piccola, magra, ben vestita, che con un salto “alla Fosbury” risale velocemente sul letto e ci fa “Oh, sono arrivati i dottori, prego visitatemi pure”.

Rimaniamo abbastanza interdetti, ma ha davvero 102 anni questa donna?

Le chiediamo di sistemarsi sulla barella, e lei tutta sorridente “Sì sì certo… ma come siete belli… guarda quanti capelli ha quel ragazzo, che invidia… vengo subito… ma come è comoda questo lettino” e così via.

Pressione perfetta, saturazione meglio di un adolescente, l’unico problema è l’ernia “Ma non fa tanto male sapete? Qui gli infermieri mi trattano benissimo, si mangia tanto ed è buono… Dite che c’è da operare? Allora facciamolo subito, io sono pronta eh!”.

Ridendo, cerchiamo di “tranquillizzare” (ma non è per niente spaventata) la signora: nessuno la opererà, soprattutto a 102 anni, farà solamente una visita in pronto soccorso.

Lei sorride, usciamo dalla casa di riposo, c’è il sole e lei inizia a cantare “O sole mio…”, poi ci confida che lei canta nel coro, e si diverte. Tutto il viaggio è un continuo chiacchierare: il lavoro che faceva, la vita in casa di riposo. E’ lucidissima, neanche un pò di depressione, dispensa pillole di allegria a tutti.

Penso che i casi in cui mi sia dispiaciuto lasciare un paziente in pronto soccorso e rientrare in sede si contino sulle dita di una mano, e questo è uno di questi. Arrivederci signora Angela, 100 di questi anni!