100 di questi anni

Inizio turno, siamo chiamati in casa di riposo per un’ernia inguinale che gli infermieri non riescono a far rientrare, codice verde.

Carichiamo lo zaino sulla barella, percorriamo diversi corridoi mentre l’infermiere ci informa che la paziente ha ben 102 anni, arriviamo alal camera… e la nonnina non c’è! Dov’è finita? “E’ in bagno a fare pipì e a prepararsi”.

Aspettiamo qualche minuti, convinti di vedercela arrivare in sedia a rotelle… E invece dal bagno spunta una donna piccola piccola, magra, ben vestita, che con un salto “alla Fosbury” risale velocemente sul letto e ci fa “Oh, sono arrivati i dottori, prego visitatemi pure”.

Rimaniamo abbastanza interdetti, ma ha davvero 102 anni questa donna?

Le chiediamo di sistemarsi sulla barella, e lei tutta sorridente “Sì sì certo… ma come siete belli… guarda quanti capelli ha quel ragazzo, che invidia… vengo subito… ma come è comoda questo lettino” e così via.

Pressione perfetta, saturazione meglio di un adolescente, l’unico problema è l’ernia “Ma non fa tanto male sapete? Qui gli infermieri mi trattano benissimo, si mangia tanto ed è buono… Dite che c’è da operare? Allora facciamolo subito, io sono pronta eh!”.

Ridendo, cerchiamo di “tranquillizzare” (ma non è per niente spaventata) la signora: nessuno la opererà, soprattutto a 102 anni, farà solamente una visita in pronto soccorso.

Lei sorride, usciamo dalla casa di riposo, c’è il sole e lei inizia a cantare “O sole mio…”, poi ci confida che lei canta nel coro, e si diverte. Tutto il viaggio è un continuo chiacchierare: il lavoro che faceva, la vita in casa di riposo. E’ lucidissima, neanche un pò di depressione, dispensa pillole di allegria a tutti.

Penso che i casi in cui mi sia dispiaciuto lasciare un paziente in pronto soccorso e rientrare in sede si contino sulle dita di una mano, e questo è uno di questi. Arrivederci signora Angela, 100 di questi anni!

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Giallo, rosso, nero

Se facessi una previsione dell’anno basata sui primi quattro turni del 2014, la situazione sarebbe abbastanza problematica in quanto come squadra abbiamo già avuto 2 codici rossi, che salgono a 4 se contassi anche il terzo membro della nostra squadra che ha fatto dei turni a parte (magari alcune realtà direbbero “solo?”, mentre per la nostra realtà è un “così tanti?”).

Un codice rosso è arrivato alle 2.30 di notte, e dormivo così profondamente che non ho sentito nemmeno il telefono (per fortuna non sono io la centralinista). Quella notte ho rischiato qualche osso ben due volte: scendendo le scale di corsa cercando di rivestirmi e con le stringhe degli scarponi slacciati (della serie “attenzione, non fatelo a casa”), e mentre caricavo tutto il materiale sulla barella e l’autista ha quasi inchiodato per un dosso non segnalato… Lì ho avuto davvero paura, ero in piedi (cosa che non dovrei fare, ma su un rosso cercavo di guadagnare tempo) e mi sono sentita scaraventare verso il vano guida, per fortuna ho avuto la prontezza di frenarmi con le mani al sedile di fronte e la cosa non ha avuto conseguenze.

Dicevamo… codice rosso in casa di riposo, edema polmonare. Il signore in effetti respira con molta fatica, vomito biliare, non è cosciente. Non c’è molto in effetti che noi possiamo fare nell’immediato se non caricare e dirigerci in giallo in ospedale, tenendolo monitorizzato tutto il tempo.

L’altro rosso l’abbiamo fatto una domenica pomeriggio, quando la nebbia ha deciso di scendere come un muro tutto attorno a noi. La chiamata ci manda in un paese vicino, non abbiamo molti dati, l’infermiere del 118 riferisce una chiamata concitata in cui si capisce “sta male, non respira e non parla”.

Andiamo più veloce che possiamo (nebbia permettendo), ma troviamo il passaggio a livello abbassato. Avvisando la centrale, allarghiamo il giro per evitarlo, e riusciamo ad arrivare al paese.

Per fortuna la situazione è meno grave del previsto: il signore non è in arresto cardiaco come si temeva, ma è una crisi ipoglicemica su paziente diabetico. Il problema più che altro è la “cornice” dell’intervento: la moglie infatti è agitatissima, non riusciamo a calmarla nonostante le nostre rassicurazioni, nella stanza accanto ha anche la mamma con l’Alzheimer da seguire. Temiamo quasi di dover portar via due persone anzichè una!

Sulla nostra ambulanza, per regolamento, non abbiamo l’apparecchio per misurare la glicemia, ed ancora più assurdo non ce l’ha neanche il paziente in casa, pur essendo diabetico. Non possiamo quindi stabilire se è ipo o iperglicemico: che si fa rischiamo di dargli dello zucchero, con il rischio che sia in iperglicemia e quindi peggiorare il tutto? Per fortuna arriva in soccorso l’auto-infermierizzata di un paese vicino, l’infermiere lotta contro le vene sottili dell’anziano, ma quando finalmente l’ago è dentro gli somministra 2 dosi di glucosio di fila. Già alla fine della seconda vediamo che nei suoi occhi torna un segnale di presenza attiva, alla fine del terzo ricomincia a parlare con lucidità con noi, dice di non ricordare nulla, poi inizia a ridere e a ringraziarci. Parla in dialetto, cerca di capire quello che è successo, cerchiamo di usare le parole più semplici possibili ed è tutto un “Davvero? Possibile? E perchè?”.

Il viaggio in pronto soccorso per degli esami di controllo è per fortuna leggero e divertente, il paziente è tornato completamente in sé e chiacchiera amabilmente con l’equipaggio.

Per fortuna ogni tanto i rossi non finiscono in neri.

Puoi solo stare a guardare

Siamo a metà di un turno festivo, suona il telefono: la centrale ci manda in una casa di riposo di un paese vicino, codice verde, anziano con dolori addominari ed anuria (non riesce a fare pipì).

Arriviamo alla casa di riposo, carichiamo lo zaino sulla barella e saliamo al piano. Troviamo questo vecchietto, sdraiato su un fianco, che si aggrappa disperato alle spondine del letto, urla e si tocca l’addome. C i riferiscono che, sebbene cateterizzato, non urina dal giorno precedente. Lui ha una cartella clinica a dir poco infinita, nonchè demenza senile e quindi non c’è collaborazione da parte sua, non riusciamo a farci spiegare cosa sente.

Carichiamo in ambulanza e ci dirigiamo verso l’ospedale, dove o riposizioneranno il catetere (nel caso sia una cosa lieve), o indagheranno maggiormente con tac e con ricovero in caso più grave. Il viaggio, sebbene duri pochi chilometri, è penoso: nonostante i nostri tentativi di calmarlo e di parlargli, non riusciamo ad abbattere la barriera che la malattia ha creato tra noi e lui. Le sue mani stringono la spondina della barella, le nocche diventano bianche per lo sforzo, le braccia non trovano riposo e sono sempre in movimento… Si aggrappa alla bombola dell’ossigeno (per fortuna è ben fissata per terra, nessun rischio), poi alle coperte, poi alla cinghia che lo tiene alla barella. Mettiamo in sicuro qualsiasi cavo si trovi nelle sue vicinanze, e poi non possiamo fare altro che stargli vicino, cercare di rincuorarlo ed evitare che si faccia male (magari staccandosi il catetere).

E’ un viaggio fatto di urla, riusciamo solo a capire “Aiuto” e “Mamma”: guardandolo mi sembra di rivedere mio nonno, quando era ricoverato in ospedale, sono quasi coetanei. Arriviamo in ospedale e lo lasciamo nelle mani nei medici.

Dopo un paio d’ore la situazione si sblocca, e potrà fare ritorno in casa di riposo.